sabato 31 maggio 2008

Mamma, mamma e figlia

Davide Varì
«Ma perchè diamine devo sempre dimostrare di essere una brava mamma?». Costanza, 40 anni circa, lo dice in modo ironico, ma il fatto che la sua maternità sia sempre discussa, scannerizzata e giudicata inizia a diventare decisamente irritante. Il "problema" è che sua figlia Alice, due anni appena compiuti, di mamme ne ha due: "mammaCo" "e mammaMo", mamma Costanza e mamma Morena.
Sono una famiglia "arcobaleno" loro. Una delle tante famiglie omogenitoriali che vivono in questo Paese e che questo stesso Paese, quando non gli fa la guerra, semplicemente ignora. Il Paese delle istituzioni però.
Questa miriade di gruppi famigliari omogenitoriali sparsi in tutta italia, ha infatti dei vicini dei casa e dei colleghi; ha a che fare con le maestre dei propri figli e con i genitori dei loro compagni di scuola. Insomma, ha una rete sociale, esattamente come tutte le altre famiglie italiane. Una rete che non solo non ignora la loro situazioni ma che, nelle stragrande maggioranza dei casi, ci convive con serenità: «Quando è nata Alice i vicini ci hanno riempito di regali: culla, vestitini, giochi...».
Dunque l'inviolabilità della famiglia cosiddetta naturale - madre, padre e figlio - esiste solo nelle parole di qualche politico in cerca di santità o, al più, di qualche entratura in Vaticano? «Indubbiamente l'omofobia esiste anche nel Paese reale - spiega Costanza - solo che di fronte alla conoscenza diretta del fenomeno e di fronte al riconoscimento della nostra normalità ogni pregiudizio sembra sparire». Morena e Costanza hanno avuto Alice due anni fa. «Siamo andate in Belgio e abbiamo fatto la fecondazione assistita. Anzi, è la mia compagna che l'ha fatta, è lei la mamma biologica».
Uno scherzetto che, grazie alla legge 40, è costato loro varie decine di migliaia di euro. «Il fatto è che noi volevamo davvero tanto Alice». Almeno su questo dovrebbero essere tutti d'accordo: le peripezie che deve affrontare una coppia omogenitoriale per avere un figlio sono così faticose e lunghe che nessuno potrà mai mettere in dubbio la loro voglia di essere genitori.
Eppure, anche loro, che oggi vivono un vita serena e del tutto integrata - una vita normale come più volte ripete Costanza - hanno dovuto fare i conti i pregiudizi. Soprattutto con i propri pregiudizi: «Quando ho scoperto di essere lesbica - racconta ancora Costanza - ho escluso qualsiasi possibilità di divenire mamma. Non è stata una cosa pensata, è stato un pensiero automatico».
Poi è arrivata Morena che insieme all'amore ha portato un insopprimibile desiderio di maternità. «Mi ha messo di fronte ad una questione che io non mi ero mai posta veramente. Con il passare del tempo sono stata trascinata dalla sua dolce determinazione ed ho capito che anch'io volevo essere mamma».
Poi Morena è rimasta incinta e Costanza l'ha "accompagnata" per nove mesi. Visite dal ginecologo, ecografie e infine il parto. Certo Alice e Morena, soprattutto i primi mesi hanno creato il loro piccolo e inviolabile mondo. Quell'osmosi fisica, quasi ferina, che si crea tra madre e neonato. «Lei l'ha tenuta in grembo per nove mesi, l'ha allattata, è normale che sia così. Ma io ho atteso con serenità e oggi, a due anni di distanza, mi sento madre allo stesso livello». Una madre allo stesso livello, certo, ma non per la legge. Lei, Costanza, per lo Stato italiano non ha alcun diritto e alcun legame nei confronti di sua figlia.
Che provasse a spiegarlo alla bambina questo Stato, provasse a dirle che Costanza non è sua madre. Altro che difesa del diritto del bambino.
Ed è per rivendicare questo diritto che ieri, l'associazione Arcobaleno si è ritrovata a Roma in un convegno dal titolo piuttosto esplicito: "I figli fantasma delle coppie fantasma". «E' noto, i fantasmi non si stancano mai - dice la presidentessa, Giuseppina La Delfa - Girano e rigirano, insonni, in cerca di pace e serenità. Così facciamo noi e lo faremo finché saremo accolti nella comunità dei vivi, degli aventi diritti». E il convegno ha rappresentato un'occasione per tirare le somme di tre anni di attività. Del resto i bambini con almeno un genitore gay sono circa 100mila. Un numero che non si può ignorare e la cui composizione è molto varia.
Chiara Lalli, bioeticista dell'Università romana de La Sapienza, sta preparando un volume arricchito da storie di vita vissute di genitori gay: «La cosa che balza agli occhi è la "normalità" di queste famiglie. Ho parlato in modo diretto con i bambini e nessuno di loro vive difficoltà o disagi riconducibile al genere dei propri genitori. Anche il contesto sociale è sereno: la scuola riesce a integrarli senza alcuno sforzo. Una conferma che il dato fondamentale della genitorialità è l'affetto, è l'amore».
Nulla in meno dunque rispetto ad una coppia di genitori eterosessuali. Anzi, forse qualcosa in più. L'unico problema, dunque, è dato dalla legge: «Se il genitore biologico dovesse venir meno, il bambino sarebbe orfano. Non c'è nessuna legge che tuteli il minore da questa gravissima e dolorosissima ingiustizia».
Ma c'è chi si ostina a utilizzare la "tutela del bambino" come un arma da scagliare contro la possibilità che le coppie gay possano adottarne: crescita squilibrata e mancanza delle figura di genere, continuano a ripetere i detrattori. Di certo, però, ci sono solo gli studi dei più importanti istituti di ricerca. Tra questi, quello dell'American Psychological Association: «Sotto condizioni socio-economiche simili, i bambini allevati da coppie dello stesso sesso sono paragonabili a quelli allevati da coppie di sesso opposto in termini di salute mentale e fisica». Del resto, generazioni intere di italiani sono cresciute avendo come unico riferimento di genere le donne: mamme, nonne, zie e via dicendo.
C'erano anche Costanza e Morena al convegno di ieri: «Nostra figlia - ammette sorridendo Costanza - è etero, già si capisce. Vabbè, la accetteremo comunque per quel che è».

sabato 24 maggio 2008

Ponticelli


Sono stato a Ponticelli,
i rom non ci sono più e quanto segue è quello che ho visto...



«Certo, io tengo paura degli zingari. Però, mo che li hanno cacciati, il mio amichetto di classe non ci sta più e a me mi dispiace assai».
Sta nelle parole di Marco - 8 anni, della scuola elementare Enrico Toti - il senso di quel che è accaduto a Ponticelli nei giorni della caccia al rom. Nei giorni dei roghi, della furia popolare e delle strane infiltrazioni della camorra. D'o sistema.
C'è ancora l'accanimento contro gli zingari «scocciatori, ladri e puzzolenti»; ma c'è anche la pietà, «perchè in fondo - dice una giovane donna in attesa che il figlio esca da scuola - non facevano proprio nulla di male. Qui a Ponticelli, il vero problema sono gli spacciatori che arrivano fin sotto la scuola a vendere chilla merda». E poi quella storia del rapimento della bambina a cui non crede nessuno. «Quella ragazza rom la conoscevano tutti. Mi sembra strano. E' tutto molto strano».
Estrema periferia orientale di Napoli - «l'ultima metropoli plebea», diceva Pasolini - Ponticelli è un Giano bifronte. C'è il volto grigio e straniante della zona nuova, quella costruita dopo il terremoto dell'80 e dominata dalle "cinque torri", come chiamano i palazzoni dormitorio di 10 piani che ti trovi sbattuti in faccia appena esci dalla circumvesuviana; e c'è il volto domestico della zona vecchia: case basse, vicoli seducenti e ragazzini che corrono, ridono, ruzzano per strada.
Poi ci sono i dati, le statistiche di Ponticelli. E quelle sono una condanna senza appello: 50mila abitanti e un tasso di disoccupazione formale del 50%. Disoccupazione formale però. I lavoratori in nero che "scennono a faticà" ogni mattina sono infatti tanti e non censibili.
E la camorra ovviamente, 'o sistema. Una camorra che è parte integrante di quei vicoli; che li vive ogni giorno che Dio manda in terra, che li avviluppa nel suo abbraccio subdolo e feroce. Un magma elastico che da e riceve forma da quelle vie. «La camorra napoletana e quella di Ponticelli non sono la camorra organizzata del casertano. Qui a Napoli - spiega Fabio Giuliani, responsabile dell'associazione Libera - c'è una camorra anarchica, disorganizzata».
Ci sono i Sarno, certo. C'è O' Peppe che è il nuovo capo da quando il boss, Ciro Sarno, è in galera. Ma loro, con i roghi, dice il popolo di Ponticelli, non c'entrano nulla. «Quelli prendevano un pizzo di 50 euro a baracca, che interesse avevano a cacciare gli zingari?».
Eppure qualcuno di loro ha partecipato alla spedizione, molti giovani vicini alla camorra hanno dato fuoco alle baracche e hanno guidato la rivolta anti-rom. Ma non parlate di disegno criminale per liberare la zona e i terreni dalla presenza ingombrante degli zingari. Qui a Ponticelli non ci crede nessuno. «Quei terreni - spiega Patrizio Gragnano, assessore del municipio - non li vuole nessuno. Ci sono state già due gare d'appalto, entrambe sono andate deserte».
Insomma, la verità di quel che è accaduto a Ponticelli, forse, è molto più semplice, è molto più banale. La classica dinamica del capro espiatorio. In una zona tanto degradata, isolata e dimentica è bastato una pretesto, un presunto tentato rapimento di una bambina da parte di una "zingarella", per creare il caos, la rivolta popolare, la guerra tra poveri.
E Ponticelli è questa, una polveriera pronta ad infiammarsi alla prima scintilla. Del resto, erano mesi che il fuoco covava sotto le ceneri. Si era formato anche uno strano comitato di inquilini capeggiati dal consigliere piddino Ferdinando Truglio che ogni giorno premeva per trovare una "soluzione" definitiva per quella presenza indecente dei rom di via Malibran, la sua piccola fortezza elettorale.
Ma il consiglio municipale non è riuscito a trovare una soluzione. E nel corso dell'ultima seduta, riferiscono testimoni, l'onorevole Truglio ha sentenziato: «Chella là - i rom ovviamente - è munnezza». E la monnezza a Napoli si brucia.
Strana storia quella del Partito democratico di Ponticelli. Tanto per cominciare di Pd ce ne sono due: il "Pd" e il "Pd Campania democratica".
Una schizofrenia che si è manifestata in tutta la sua evidenza in occasione del famoso manifesto della vergogna: "Via gli accampamenti rom da Ponticelli" era il titolo che campeggiava tra le strade del quartiere. E ancora: «Il continuo aumento di accampamenti rom in diverse aree del quartiere è diventato insostenibile». E poi l'immancabile overdose di "emergenze", la parola più di moda in Italia. «Emergenza sanitaria, emergenza ambientale ed emergenza sociale». Conclusione, il Pd chiedeva l'immediato «smantellamento del campo rom».
«Quel manifesto non è nostro», dice sconfortato Massimo de Luca, l'ultimo segretario della sinistra giovanile della Casa del popolo di Ponticelli. «E' stato un colpo di mano di alcuni iscritti. Io non condivido quel messaggio». Il colpo di mano, è noto, è stato di Giuseppe Russo, consigliere regionale del Pd, escluso dal Senato della Repubblica per una manciata di voti. E lui, Peppe Russo, dopo le critiche che gli sono piovute addosso dai vertici del partito, da Walter Veltroni e da Antonio Bassolino, ha provato a correggere il tiro, a spiegare il senso di quel manifesto e di quel titolo. «Se c'è stato uno sconfinamento questo non è avvenuto a causa di un manifesto che ha rappresentato le continue, reiterate, inascoltate richieste per assicurare, soprattutto ai Rom, condizioni di maggiore civiltà». Insomma, per chi non l'avesse capito, l'Onorevole Peppe Russo ha scritto quel manifesto per il bene stesso dei rom.
Ma il bello della faccenda deve ancora venire: il giorno prima dell'affissione del Pd, il circolo Ponticelli di Alleanza Nazionale aveva tappezzato il quartiere con un manifesto dai toni ben più tiepidi di quelli dettati dall'onorevole Russo. Di qui la reazione di An, la quale, di fronte a quel sorpasso a destra da parte del Pd ha immediatamente prodotto un nuovo manifesto dai toni, per così dire, più espliciti.
Non solo Pd però. A sentirsi in croce per quanto accaduto la scorsa settimana a Ponticelli è un po' tutto il centrosinistra. In quindici anni di gestione del Comune e della Regione Campania, i problemi son tutti lì, ammassati insieme alla monnezza. L'ultima trovata è stata quella del divieto di fumo nei parchi pubblici napoletani per prevenire malformazioni al feto e le malattie polmonari. Il tutto nei giorni in cui la diossina prodotta dai roghi dei rifiuti si infilava nei vicoli della città, nelle case e nelle culle dei neonati.
Poi è arrivato Silvio Berlusconi. La sua parata, il suo show ha molto impressionato gli abitanti di Napoli e di Ponticelli. «Ora sistema tutto», sussurrano i napoletani. E che Berlusconi punti a prendersi la città è un fatto. Ha tagliato i vertici del partito ed ha piazzato gente sveglia, giovane e dinamica. «Abbiamo poco tempo per rimediare a una situazione drammatica. La sinistra deve ritrovare se stessa, tornare a parlare con i cittadini - dice Sempre Fabio dell'associazione Libera - Il problema è che questo centrosinistra è stanco. Anche rifondazione fatica a incontrare la politica», dice mentre entra nella scuola elementare Enrico Toti per prendere i temi sulla legalità che hanno preparato i bambini. «Ecco, lo vedi - dice ancora - è così che Don Luigi Ciotti ci ha insegnato a incontrare la politica. In mezzo alla strada, tra la gente. Tutto il resto so chiacchiere».
Per non parlare di Ponticelli. Sono decenni che il municipio è in mano al centrosinistra. La chiamavano la Stalingrado di Napoli. Ma di quella Stalingrado sono rimaste solo le macerie e le ceneri del campo rom di Via Malibran.

giovedì 15 maggio 2008

Tra i rom del Casilino900



Ieri sono stato al campo nomadi del Casilino900 di Roma. Questo è quello che ho visto. Già mi accusano di essermi bevuto il cervello, forse hanno ragione. Ma questo è esattamente quello che ho visto e sentito...

Bambini. Il campo rom più antico di Roma è un covo "pericolosissimo" di bambini. Tra i 600 residenti, la metà ha meno di 14 anni e tutti, dal primo all'ultimo, vanno a scuola. Poi tornano a casa, fanno i compiti, un po' di televisione e infine a nanna. Chi fosse a caccia di facili esotismi metropolitani ne rimarrebbe deluso, così come rimarrebbe deluso chi cercasse di scovare scippatori, stupratori o "rubabambini".
Il Casilino900 non è un campo rom qualsiasi. E' un organo vitale e fertile della capitale che in quarant'anni di esistenza si è integrato quasi perfettamente nel quartiere. Nulla di esotico, certo. Eppure, talvolta, girovagando tra quelle baracche colorate, si ha l'impressione di essere finiti dentro Macondo, la città magica nata dalla penna di Gabriel García Márquez. E poi loro, quei bambini: scalzi, vestiti con abiti logori ma sorridenti; sempre sorridenti. C'è qualcosa di solare al Casilino900. Certo, c'è il disagio di vivere in una situazione igienica sempre precaria, ma c'è anche qualcosa di lieve. Qualcosa che i figli del nostro benessere hanno dimenticato.
Anche don Paolo, che frequenta il campo da circa un anno, parla di qualcosa di dolce, di leggero: «E' un tipo di vita che ci riporta all'essenza». In zona nessuno lamenta scippi nè ha mai sentito parlare di bambini rubati. E sì, quando si parla di Rom non si parla di bambini rapiti: meglio dire rubati. E' un termine favolesco, facile da far capire ai bambini italiani che devono stare alla larga da quella gente lì. Gente pericolosa e sporca. Gente che ruba i bambini.
«Rubare bambini noi? - sorride Hakija, della comunità bosniaca del campo - ma se ogni coppia ha almeno cinque figli. Io ne ho addirittura otto. Perchè dovremmo rubare i figli degli altri?».
«Io non capisco cosa stia succedendo nel nostro Paese - fa eco Najo Adzovic, coordinatore del campo e scrittore - dal giorno della morte della signora Giovanna Reggiani siamo diventati il pericolo pubblico numero uno. Hanno già provato a sgomberarci, ad abbattere le nostre case, ma abbiamo mobilitato tutti i nostri amici e le ruspe, almeno per ora, si sono fermate».
Già, per ora. Ma a sentire i proclami che arrivano dal nuovo inquilino del Campidoglio c'è poco da stare sereni. Lo sgombero, infatti, è sempre lì che aleggia come un ombra, uno spettro. Una spada di Damocle sospesa sulla testa di ognuna di queste persone, su ognuna di queste esistenze. «Io non so più cosa fare - racconta Klej, con un bimbo appeso al collo che giocherella con la sua collana d'oro - ho otto figli. Sono nati tutti qui, sono italiani. Sette di loro vanno già a scuola e il prossimo anno dovremmo iscrivere anche il più piccolo. Se ci cacciano non so proprio dove andremo e non saprei spiegare ai miei figli perchè non ci vogliono e perchè non potranno più andare a scuola con i loro amichetti. Siamo davvero preoccupati, disperati».
Come se non bastasse ieri l'altro è arrivata anche la notizia del commissario straordinario per l'emergenza rom. «Un commissario? - ripete incredulo Najo - noi non abbiamo bisogno di nessun commissario, noi non siamo un'emergenza, noi siamo un popolo pacifico che non ha mai fatto una guerra e che ha subito un olocausto nel quale sono morti, sono stati uccisi decine di migliaia di nostri fratelli. So di dire una cosa forte - prosegue Najo - ma anche Hitler ha iniziato in questo modo. Lo sterminio è stato un punto d'arrivo di un percorso graduale: prima ci hanno demonizzato, poi ci hanno allontanato dalle città privandoci di qualsiasi forma di lavoro. A quel punto, è evidente che qualcuno ha iniziato a rubare per fame, per nutrire i propri figli. E così il cerchio si è chiuso. E' bastata qualche patata rubata per far dire: "ecco gli zingari rubano"». La fine, anche se troppo spesso qualcuno la dimentica, è nota: 250mila rom deportati e uccisi. E'il Porajmos, la "devastazione", la loro Shoah.
E dire che Najo, col sostegno convinto di tutta la comunità, lavora ventiquattro ore su ventiquattro per aprire il Casilino900 al quartiere. Per prevenire possibili attriti e far conoscere ai cittadini del VII municipio il loro stile di vita e le loro tradizioni. «Spesso - dice sconsolato dalle notizie che arrivano da Napoli - invitiamo i compagni di scuola dei nostri figli. E' un modo per integrarci e tranquillizzare il quartiere». Najo si è imposto affinchè all'entrata del campo ci fosse una scritta "ecumenica": «Figli di uno stesso padre». Una speranza.
Eppure la valanga anti-rom che si è abbattuta sul Paese non risparmia neanche loro. Tanto per cominciare, per chiarire che aria tira, hanno staccato la luce. «E' successo d'improvviso ed ora non abbiamo più la corrente elettrica. Ma la responsabilità non è del nuovo sindaco Gianni Alemanno, la luce ce l'ha tolta la giunta precedente». Un modo carino per far capire loro che la presenza lì non era più gradita. Una delle tante stranezze accadute nei giorni dell'omicidio Reggiani, nei giorni in cui Gianfranco Fini, colui che di lì a poco sarebbe divenuto il presidente della Camera, perlustrava le «zone del disagio» con l'elicottero promettendo decine di migliaia di espulsioni; e nei giorni in cui il sindaco di Roma Walter Veltroni moltiplicava gli sgomberi e correva in consiglio dei ministri per convincere l'allora premier Prodi a varare un nuovo decreto esplusioni.
Parole e decreti che piovevano come macini sulle vite di queste persone. «Quei giorni lì - continua Najo - ci sentivamo assediati. Venivamo tutti additati come assassini e stupratori. Ho provato rabbia e dolore. Noi abbiamo un codice secolare che si fonda sul rispetto assoluto delle donne, dei bambini e dei nostri vecchi. Erano e sono accuse che bruciano come ferite».
E mentre Najo si sfoga, un "vecchio", dal volto rugoso è intento a lavorare un foglio di rame. Accanto a lui una montagnola di rifiuti che seleziona con sapienza. Sono i nostri rifiuti, i nostri scarti che vengono ripuliti e riutilizzati in mille modi. Spesso rivenduti al mercatino di zona che i rom del Casilino900 organizzano ogni domenica. Il "vecchio" non parla italiano, ma saluta gentile con i suoi occhi sereni. «Ne ha passate davvero tante», dice Najo.
Fatto sta che il Casilino900 rischia di essere spazzato via. Li accanto sta nascendo la metropolitana e in molti vorrebbero i rom, tutti i rom, fuori dal raccordo anulare, l'anello autostradale che circonda, delimita la capitale. «Sarebbe una vero dramma, saremmo isolati. Gli anni di scolarizzazione e tutti gli sforzi di mediazione e integrazione sarebbero vanificati, cancellati dalle ruspe».
Nel corso degli ultimi sgomberi voluti da Veltroni, e prima che il nostro si dedicasse alla campagna elettorale, una foto ritraeva un caterpillar della Repubblica italiana sopra un libro, un sussidiario delle elementari schiacciato e immerso nel fango. Un'istantanea devastante: dietro quel libro c'era lo sforzo di chissà quante persone, uno sforzo ed un lavoro per l'integrazione durato anni. Uno sforzo che alla fine aveva vinto. Quel libro era di un bambino rom che frequentava la scuola, la nostra scuola. L'istruzione era un suo diritto e i suoi genitori lo avevano capito. E' bastato il battito di un ciglio del sindaco e un colpo di quel caterpillar per vanificare tutto.
Don Paolo, del seminario romano maggiore, frequenta da circa un anno il Casilino900. E' capitato lì quasi per caso e ha deciso che quel campo poteva servire a far crescere i suoi giovani allievi: «C'è un clima molto confuso intorno alla questione dei rom. Io - continua don Paolo - sono convinto che l'esperienza del Casilino900, pur con tutti i suoi limiti, possa rappresentare un modello. Loro iniziano ad autorappresentarsi, a dialogare e confrontarsi in prima persona con gli amministratori per cercare di soluzioni comuni».
Nel frattempo, mentre nel campo iniziano a preparare il pranzo per i bambini che tornano da scuola, Gianni Alemanno continua a proporre il commissario straordinario per i rom. «Qui non stiamo parlando della storica presenze di sinti o giostrai, o la classica presenza di nomadi nel nostro Paese - ha aggiunto il sindaco - ma di un'invasione che si sta determinando nei confini comunitari con dei flussi crescenti». Eppure, in attesa del supercommissario, delle epurazioni, la vita al Casilino900 scorre lieve. «In fondo - conclude Najo - ne abbiamo passate di peggio».

mercoledì 7 maggio 2008

Errata

No, no. Mi correggo, Maroni ha detto una cosa molto più interessante:

Tra gli obiettivi che il nuovo governo dovrà perseguire c'è la sconfitta del «senso di insicurezza», percepito dai cittadini italiani. A sostenerlo, prima dell'inizio della gara amichevole di calcio tra Padania e Tibet è il neo ministro dell'Interno, Roberto Maroni. «Lascia qualche cosa buona - ha replicato Maroni a chi gli chiedeva un commento sull'eredità del suo predecessore al Viminale, Giuliano Amato - come il patto sicurezza delle città ma lascia una sensazione diffusa di insicurezza che non corrisponde sempre ai dati di fatto. L'Istat - ha proseguito Maroni - ha detto oggi che in Italia è molto diminuito il numero degli omicidi e che, da questo punto di vista, l'Italia è addirittura il paese più sicuro in Europa». A giudizio di Maroni, quello che il nuovo esecutivo deve «sconfiggere è il senso di insicurezza percepito e legato, peraltro, a tanti episodi di criminalità: su questo il governo non ha lavorato bene». (ANSA)

Ai capito er Maroni? No dico. E ora sti qui - leghisti e post fascisti - dopo aver tanto pompato l'insicurezza descrivendo l'Italia del centrosinistra alla mercè degli immigrati assassini, si ritrovano a gestire una situazione difficile assai. E che gli italiani ora si aspettano che sti qui facciano il loro mestiere e ripuliscano il Paese. E visto che il Paese - e questo lorsignori lo sanno bene - non si ripulisce proclamando espulsioni di massa, ora non possono far altro che provare a correggere il tiro......

Oggi, sicurezza

Alemanno, sindaco de Roma, ha sfoderato i 4 punti per migliorare la capitale: via i rom, via le prostitute e via i mendicanti;
Maroni, ministro dell'interno in pectore (in pectore di Bossi), ha detto che la sicurezza è la priorità;
Intanto l'Istat dice che gli omidi diminuiscono nettamente e che l'Italia è uno dei paesi più sicuri d'Europa...
Come la mettiamo?

Sindaco di tutti ma non dei gay

Dopo il festival del cinema autarchico - «bisogna preservare l'identità del cinema italiano» - e la dura battaglia contro la teca dell'Ara Pacis - «è brutta, va rimossa» -, il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha trovato un nuovo obiettivo: rendere presentabile e decoroso il Gay Pride. «E' un fatto di esibizionismo sessuale ed io sono contrario all'esibizionismo, sia omosessuale che eterosessuale», ha dichiarato, ieri, davanti ai microfoni della Rai. Alemanno, dunque, non le manda a dire e chiarisce subito i confini entro i quali potrà muoversi il movimento gay capitolino nei prossimi cinque anni.
Ma quella del sindaco è più di una semplice "battaglia di civiltà", a ben vedere le sue parole contengono anche un "benevolo" consiglio alla comunità Lgbtq tutta. Quella del Gay Pride, infatti, sarebbe una «ostentazione non positiva anche per chi manifesta».
Insomma, passati i giorni dei grandi proclami bipartisan - «sarò il sindaco di tutti, anche di chi non mi ha votato» -, Gianni Alemanno ha scelto il tema dell'omosessualità per segnare la linea e l'identità della nuova amministrazione. Per chiarire di chi non sarà il sindaco.

lunedì 5 maggio 2008

figlio di un gay...




In Italia si calcola che siano centomila i minori con almeno un genitore gay. Ci sono quelli nati da unioni eterosessuali, poi sfociate in un divorzio, ma molti, sempre di più, sono invece vissuti sin dall’inizio in una casa con due mamme e due papà.

Per coronare il loro sogno molti vanno all’estero. Le lesbiche in Spagna o nel nord Europa dove possono ricorrere alla fecondazione assistita. Gli uomini in Canada o negli Stati Uniti in cerca di una madre surrogata. Altre coppie, invece, scelgono la strada del fai da te. Le donne ricorrono all’autoinseminazione o cercano un donatore amico.

Nel libro "Bambini ai gay"? Margherita Bottino, psicologa, e Daniela Danna, sociologa, descrivono i figli degli omosessuali come bambini più tolleranti, meno conformi agli stereotipi di genere, cresciuti da genitori con più alto grado di istruzione e di autoconsapevolezza di quelli eterosessuali. «È chiaro — spiega ancora Scaparro —che un bambino o una bambina che cresce in una famiglia omosessuale è portato a vedere con occhio più favorevole le diversità, ad essere magari meno conformista. Questo non è né un vantaggio né uno svantaggio. Il vero pericolo per questi bambini sono i pregiudizi di una società, la nostra, in cui la famiglia è quella tradizionale, sposata, magari in chiesa. Su questo c’è da combattere ».