martedì 1 aprile 2008

«Io medico di strada, vi racconto le vere schifezze dell'Italia»


Cinecittà, periferia sud di Roma. Una piazza. Al centro della piazza un container colorato e una scritta: «Ambulatorio medico». Dentro, un uomo seduto dietro una piccola scrivania rimediata chissà dove e una borsa, una borsetta logora da medico della mutua. L'uomo, illuminato da una luce al neon appoggiata al muro, si chiama Antonio Calabrò, il dottor Antonio Calabrò. «Che ci faccio qui? Faccio solo il mio lavoro, cerco di guarire e assistere chi si ammala».
In realtà nessuno ha chiesto mai ad Antonio Calabrò di piazzarsi lì. Nessuno lo paga - il suo lavoro di medico è al Fatebenefratelli - e solo qualcuno lo aiuta. Di certo non lo aiuta l'Acea, la multinazionale che si occupa di fornire luce e acqua ai cittadini romani ma che ha deciso di lasciare senza elettricità questo medico di frontiera. Un dimenticanza? Forse sì, in fin dei conti i suoi pazienti non valgono molto: sono rom, romeni, polacchi e tutta quella umanità varia che si aggira nelle metropoli del Belpaese. Un popolo di invisibili, di fantasmi che ogni santo giorno che Dio manda in terra cerca di sbarcare il lunario per rimediare un pasto, un posto caldo dove passare la notte e, quando la situazione è particolarmente grave, un medico.
«Sono stati giorni molto pesanti - racconta il dottor Calabrò -. Il sindaco ha deciso di far sgomberare le baracche di Tor Bella Monaca e centinaia di persone, soprattutto donne incinta e bambini, hanno passato questo week-end di Pasqua sotto la pioggia». Risultato del blitz? «L'ambulatorio è stato invaso da ragazzini con problemi respiratori anche gravi». E sì, a Roma ultimamente funziona così. La polizia arriva a sirene spiegate e loro, i fantasmi che arrivano dall'Est e dal Sud del mondo, scappano come bestie, bestie braccate dai manganelli delle forze dell'ordine. Una fuga disperata verso le campagne di Roma: Vermicino, Tor Vergata, Frascati...
Poi la polizia se ne va e loro possono tornare a rimettere in piedi le baracche sventrate dalle ruspe della Repubblica italiana. Fatto sta che questa santa pasqua il dottor Calabrò l'ha passata a curare le bronchiti di quei «poveri cristi».
E di Cristo il dottore ha un'idea molto chiara, quasi intima: «Lui è nato, è vissuto ed è morto in mezzo alla strada, al fianco degli ultimi, dei disperati. Per me - aggiunge poi - il vangelo è questo». Lunga storia quella del dottor Calabrò: «Sono nato lì - dice indicando l'enorme struttura dei salesiani della Tuscolana - Sono cresciuto e mi sono formato sui libri dei teologi della liberazione. A quel tempo i preti ci facevano imparare a memoria "La pedagogia degli oppressi" di Paulo Freire». Sarà per questo che il dottor Calabrò si ostina a pensare che Cristo è soprattutto lì, tra le baracche di Cinecittà: «Paradossalmente - dice - bisogna scendere all'inferno per riscoprire e ritrovare Gesù Cristo».
D'improvviso arriva la signora Carmela: «Dottore - chiede concitata - ce li ha i risultati delle analisi del ragazzo di ieri?». «Sì, credo che siano pronte, ma ho bisogno del nome e cognome», risponde lui. «Nome e cognome? E chi se lo ricorda. Lo sai quanti ce ne ho di questi qui? Non posso ricordarmi tutti i nomi». La signora Carmela è un'altra volontaria che ogni giorno offre un pasto caldo a chi ne ha bisogno, gli lava i panni e organizza le visite mediche, le spedizioni dal dottor Calabrò. «E' stato un periodo davvero difficile - dice ancora la signora Carmela - dal giorno dell'assassinio della signora Reggiani - la donna aggredita e uccisa a Ponte Milvio da un rumeno - si è creato un clima da caccia alle streghe. Questi qui - sbotta poi - sono esseri umani, essere umani come noi».
«Il problema - fa eco il dottor Calabrò - è che se non diamo un volto a questi disperati, se non ci rendiamo conto che dietro la parola rom, rumeno o extracomunitario c'è un uomo in carne ed ossa, non cambierà mai nulla. Per questo le persone tollerano, tollerano senza muovere un dito, le truppe cammellate di Veltroni che sgombrano i campi e le baraccopoli. Nessuno pensa davvero che dentro quelle baracche vivono donne, uomini e bambini in carne e ossa».
Fatto sta che la presenza della signora Carmela rende bene l'idea della rete che si muove intorno al dottor Calabrò. Una rete di solidarietà che si alimenta grazie alla radicalità, la radicalità vera e vissuta ogni giorno nelle strade di questa Roma. «Quando immanenza e trascendenza si incontrano - spiega sorridendo il dottore - si possono fare miracoli veri». Già, miracoli. Come quella volta che hanno salvato una giovane rom di 28 anni alla sua settima gravidanza. «Aveva subito il distacco della placenta. Rischiava davvero di morire. Le ambulanze non si trovavano, allora ho spedito mia figlia che è andata al campo, l'ha caricata in macchina e me l'ha portata in ospedale dove era pronta la sala operatoria. L'abbiamo salvata per il rotto della cuffia».
Poi la politica. E sì perchè grazie alle insistenze di Sandro Medici, presidente del municipio, il dottor Calabrò ha deciso di candidarsi nelle liste della Sinistra Arcobaleno. «Una decisione sofferta - ammette sorridendo - ho dovuto chiedere permesso a Padre Zanotelli, uno che ha trovato Cristo nell'inferno di Korogocho, perchè tra noi c'era la promessa di non entrare in politica per nessuna ragione». «Nulla a che vedere con Grillo, sia chiaro», specifica poi. «Io alla politica, la politica con la P maiuscola ci credo eccome. E' ai partiti, a quello che è rimasto dei partiti che non credo».
«Come mai la politica allontana persone come Antonio Calabrò? Me lo chiedo anch'io - ammette Sandro Medici - Certo è che se la politica si riduce alla gestione tecnica del territorio, se non riesce a trasmettere valori dando spazio a queste esperienze, il problema è dei partiti e non di queste persone che fanno scelte così radicali e totalizzanti».
Fatto sta che alla fine il dottor Calabrò si è convinto a provare la strada della politica: «Ho chiesto a Sandro di potermi occupare dei giovani. E' da lì che bisogna ricominciare per dare una speranza a questo Paese. Io ho cinque figli e so come diavolo vivono i ragazzi. Sono solo tubi digerenti. Non c'è nessuno che li prende per mano e gli sbatte in faccia la realtà del mondo vero. Le parrocchie sono vuote e le sezioni del Pci chiuse per sempre. Chi si occupa di loro? La televisione?».
E se gli chiedi del suo programma elettorale, il dottor Calabrò tira fuori un documento logoro dalla sua borsetta. «Vedi? - dice soddisfatto - questo è un documento che ho scritto insieme a padre Zanotelli e don Andrea Santoro. Si chiama "La Politica che vogliamo"». Un documento che sa guardare lontano, che vola alto ma che vuole agire nei singoli territori: «Ci sentiamo lontani da quelle scelte politiche che in questi anni hanno reso ancora più evidenti le logiche militariste e di guerra, le privatizzazioni dei beni comuni, la discriminazione e l'intolleranza verso immigrati e stranieri, la precarizzazione del lavoro». Ed ancora: «Il nostro Paese vive un declino politico economico, sociale e culturale che è frutto della palese incapacità delle classi dirigenti in ogni campo della società (la politica, l'economia, la cultura e i media) di dare risposte innovative, e centrate sul principio della solidarietà, della responsabilità, della cultura civile, alle sfide ed emergenze che viviamo».
«Dobbiamo lavorare tutti insieme, a partire dalle persone, i piccoli gruppi, reti, comitati, iniziative locali, unire le forze subito e darci un ?programma minimo? assicurando centralità alle mobilitazioni locali per i beni comuni e contro le grandi opere, la devastazione del territorio, le basi militari, nello spirito del movimento di Genova, e rilanciare le nuove forme della democrazia partecipata e deliberativa e contro ogni collateralismo o cooptazione subalterna nelle istituzioni - la proposta di una autonoma identità politica delle soggettività sociali e dei movimenti».
Nel frattempo scende la sera. E' arrivata l'ora di chiudere l'ambulatorio. Poco distante campeggia una ciotola piena di polpette e di latte. «Sono le gattare - spega il dottor Calabrò - Cucinano ogni ben di Dio per gli animali del quartiere. Se al posto dei gatti c'era qualche migrante poteva anche morire di fame».