sabato 31 maggio 2008

Mamma, mamma e figlia

Davide Varì
«Ma perchè diamine devo sempre dimostrare di essere una brava mamma?». Costanza, 40 anni circa, lo dice in modo ironico, ma il fatto che la sua maternità sia sempre discussa, scannerizzata e giudicata inizia a diventare decisamente irritante. Il "problema" è che sua figlia Alice, due anni appena compiuti, di mamme ne ha due: "mammaCo" "e mammaMo", mamma Costanza e mamma Morena.
Sono una famiglia "arcobaleno" loro. Una delle tante famiglie omogenitoriali che vivono in questo Paese e che questo stesso Paese, quando non gli fa la guerra, semplicemente ignora. Il Paese delle istituzioni però.
Questa miriade di gruppi famigliari omogenitoriali sparsi in tutta italia, ha infatti dei vicini dei casa e dei colleghi; ha a che fare con le maestre dei propri figli e con i genitori dei loro compagni di scuola. Insomma, ha una rete sociale, esattamente come tutte le altre famiglie italiane. Una rete che non solo non ignora la loro situazioni ma che, nelle stragrande maggioranza dei casi, ci convive con serenità: «Quando è nata Alice i vicini ci hanno riempito di regali: culla, vestitini, giochi...».
Dunque l'inviolabilità della famiglia cosiddetta naturale - madre, padre e figlio - esiste solo nelle parole di qualche politico in cerca di santità o, al più, di qualche entratura in Vaticano? «Indubbiamente l'omofobia esiste anche nel Paese reale - spiega Costanza - solo che di fronte alla conoscenza diretta del fenomeno e di fronte al riconoscimento della nostra normalità ogni pregiudizio sembra sparire». Morena e Costanza hanno avuto Alice due anni fa. «Siamo andate in Belgio e abbiamo fatto la fecondazione assistita. Anzi, è la mia compagna che l'ha fatta, è lei la mamma biologica».
Uno scherzetto che, grazie alla legge 40, è costato loro varie decine di migliaia di euro. «Il fatto è che noi volevamo davvero tanto Alice». Almeno su questo dovrebbero essere tutti d'accordo: le peripezie che deve affrontare una coppia omogenitoriale per avere un figlio sono così faticose e lunghe che nessuno potrà mai mettere in dubbio la loro voglia di essere genitori.
Eppure, anche loro, che oggi vivono un vita serena e del tutto integrata - una vita normale come più volte ripete Costanza - hanno dovuto fare i conti i pregiudizi. Soprattutto con i propri pregiudizi: «Quando ho scoperto di essere lesbica - racconta ancora Costanza - ho escluso qualsiasi possibilità di divenire mamma. Non è stata una cosa pensata, è stato un pensiero automatico».
Poi è arrivata Morena che insieme all'amore ha portato un insopprimibile desiderio di maternità. «Mi ha messo di fronte ad una questione che io non mi ero mai posta veramente. Con il passare del tempo sono stata trascinata dalla sua dolce determinazione ed ho capito che anch'io volevo essere mamma».
Poi Morena è rimasta incinta e Costanza l'ha "accompagnata" per nove mesi. Visite dal ginecologo, ecografie e infine il parto. Certo Alice e Morena, soprattutto i primi mesi hanno creato il loro piccolo e inviolabile mondo. Quell'osmosi fisica, quasi ferina, che si crea tra madre e neonato. «Lei l'ha tenuta in grembo per nove mesi, l'ha allattata, è normale che sia così. Ma io ho atteso con serenità e oggi, a due anni di distanza, mi sento madre allo stesso livello». Una madre allo stesso livello, certo, ma non per la legge. Lei, Costanza, per lo Stato italiano non ha alcun diritto e alcun legame nei confronti di sua figlia.
Che provasse a spiegarlo alla bambina questo Stato, provasse a dirle che Costanza non è sua madre. Altro che difesa del diritto del bambino.
Ed è per rivendicare questo diritto che ieri, l'associazione Arcobaleno si è ritrovata a Roma in un convegno dal titolo piuttosto esplicito: "I figli fantasma delle coppie fantasma". «E' noto, i fantasmi non si stancano mai - dice la presidentessa, Giuseppina La Delfa - Girano e rigirano, insonni, in cerca di pace e serenità. Così facciamo noi e lo faremo finché saremo accolti nella comunità dei vivi, degli aventi diritti». E il convegno ha rappresentato un'occasione per tirare le somme di tre anni di attività. Del resto i bambini con almeno un genitore gay sono circa 100mila. Un numero che non si può ignorare e la cui composizione è molto varia.
Chiara Lalli, bioeticista dell'Università romana de La Sapienza, sta preparando un volume arricchito da storie di vita vissute di genitori gay: «La cosa che balza agli occhi è la "normalità" di queste famiglie. Ho parlato in modo diretto con i bambini e nessuno di loro vive difficoltà o disagi riconducibile al genere dei propri genitori. Anche il contesto sociale è sereno: la scuola riesce a integrarli senza alcuno sforzo. Una conferma che il dato fondamentale della genitorialità è l'affetto, è l'amore».
Nulla in meno dunque rispetto ad una coppia di genitori eterosessuali. Anzi, forse qualcosa in più. L'unico problema, dunque, è dato dalla legge: «Se il genitore biologico dovesse venir meno, il bambino sarebbe orfano. Non c'è nessuna legge che tuteli il minore da questa gravissima e dolorosissima ingiustizia».
Ma c'è chi si ostina a utilizzare la "tutela del bambino" come un arma da scagliare contro la possibilità che le coppie gay possano adottarne: crescita squilibrata e mancanza delle figura di genere, continuano a ripetere i detrattori. Di certo, però, ci sono solo gli studi dei più importanti istituti di ricerca. Tra questi, quello dell'American Psychological Association: «Sotto condizioni socio-economiche simili, i bambini allevati da coppie dello stesso sesso sono paragonabili a quelli allevati da coppie di sesso opposto in termini di salute mentale e fisica». Del resto, generazioni intere di italiani sono cresciute avendo come unico riferimento di genere le donne: mamme, nonne, zie e via dicendo.
C'erano anche Costanza e Morena al convegno di ieri: «Nostra figlia - ammette sorridendo Costanza - è etero, già si capisce. Vabbè, la accetteremo comunque per quel che è».

sabato 24 maggio 2008

Ponticelli


Sono stato a Ponticelli,
i rom non ci sono più e quanto segue è quello che ho visto...



«Certo, io tengo paura degli zingari. Però, mo che li hanno cacciati, il mio amichetto di classe non ci sta più e a me mi dispiace assai».
Sta nelle parole di Marco - 8 anni, della scuola elementare Enrico Toti - il senso di quel che è accaduto a Ponticelli nei giorni della caccia al rom. Nei giorni dei roghi, della furia popolare e delle strane infiltrazioni della camorra. D'o sistema.
C'è ancora l'accanimento contro gli zingari «scocciatori, ladri e puzzolenti»; ma c'è anche la pietà, «perchè in fondo - dice una giovane donna in attesa che il figlio esca da scuola - non facevano proprio nulla di male. Qui a Ponticelli, il vero problema sono gli spacciatori che arrivano fin sotto la scuola a vendere chilla merda». E poi quella storia del rapimento della bambina a cui non crede nessuno. «Quella ragazza rom la conoscevano tutti. Mi sembra strano. E' tutto molto strano».
Estrema periferia orientale di Napoli - «l'ultima metropoli plebea», diceva Pasolini - Ponticelli è un Giano bifronte. C'è il volto grigio e straniante della zona nuova, quella costruita dopo il terremoto dell'80 e dominata dalle "cinque torri", come chiamano i palazzoni dormitorio di 10 piani che ti trovi sbattuti in faccia appena esci dalla circumvesuviana; e c'è il volto domestico della zona vecchia: case basse, vicoli seducenti e ragazzini che corrono, ridono, ruzzano per strada.
Poi ci sono i dati, le statistiche di Ponticelli. E quelle sono una condanna senza appello: 50mila abitanti e un tasso di disoccupazione formale del 50%. Disoccupazione formale però. I lavoratori in nero che "scennono a faticà" ogni mattina sono infatti tanti e non censibili.
E la camorra ovviamente, 'o sistema. Una camorra che è parte integrante di quei vicoli; che li vive ogni giorno che Dio manda in terra, che li avviluppa nel suo abbraccio subdolo e feroce. Un magma elastico che da e riceve forma da quelle vie. «La camorra napoletana e quella di Ponticelli non sono la camorra organizzata del casertano. Qui a Napoli - spiega Fabio Giuliani, responsabile dell'associazione Libera - c'è una camorra anarchica, disorganizzata».
Ci sono i Sarno, certo. C'è O' Peppe che è il nuovo capo da quando il boss, Ciro Sarno, è in galera. Ma loro, con i roghi, dice il popolo di Ponticelli, non c'entrano nulla. «Quelli prendevano un pizzo di 50 euro a baracca, che interesse avevano a cacciare gli zingari?».
Eppure qualcuno di loro ha partecipato alla spedizione, molti giovani vicini alla camorra hanno dato fuoco alle baracche e hanno guidato la rivolta anti-rom. Ma non parlate di disegno criminale per liberare la zona e i terreni dalla presenza ingombrante degli zingari. Qui a Ponticelli non ci crede nessuno. «Quei terreni - spiega Patrizio Gragnano, assessore del municipio - non li vuole nessuno. Ci sono state già due gare d'appalto, entrambe sono andate deserte».
Insomma, la verità di quel che è accaduto a Ponticelli, forse, è molto più semplice, è molto più banale. La classica dinamica del capro espiatorio. In una zona tanto degradata, isolata e dimentica è bastato una pretesto, un presunto tentato rapimento di una bambina da parte di una "zingarella", per creare il caos, la rivolta popolare, la guerra tra poveri.
E Ponticelli è questa, una polveriera pronta ad infiammarsi alla prima scintilla. Del resto, erano mesi che il fuoco covava sotto le ceneri. Si era formato anche uno strano comitato di inquilini capeggiati dal consigliere piddino Ferdinando Truglio che ogni giorno premeva per trovare una "soluzione" definitiva per quella presenza indecente dei rom di via Malibran, la sua piccola fortezza elettorale.
Ma il consiglio municipale non è riuscito a trovare una soluzione. E nel corso dell'ultima seduta, riferiscono testimoni, l'onorevole Truglio ha sentenziato: «Chella là - i rom ovviamente - è munnezza». E la monnezza a Napoli si brucia.
Strana storia quella del Partito democratico di Ponticelli. Tanto per cominciare di Pd ce ne sono due: il "Pd" e il "Pd Campania democratica".
Una schizofrenia che si è manifestata in tutta la sua evidenza in occasione del famoso manifesto della vergogna: "Via gli accampamenti rom da Ponticelli" era il titolo che campeggiava tra le strade del quartiere. E ancora: «Il continuo aumento di accampamenti rom in diverse aree del quartiere è diventato insostenibile». E poi l'immancabile overdose di "emergenze", la parola più di moda in Italia. «Emergenza sanitaria, emergenza ambientale ed emergenza sociale». Conclusione, il Pd chiedeva l'immediato «smantellamento del campo rom».
«Quel manifesto non è nostro», dice sconfortato Massimo de Luca, l'ultimo segretario della sinistra giovanile della Casa del popolo di Ponticelli. «E' stato un colpo di mano di alcuni iscritti. Io non condivido quel messaggio». Il colpo di mano, è noto, è stato di Giuseppe Russo, consigliere regionale del Pd, escluso dal Senato della Repubblica per una manciata di voti. E lui, Peppe Russo, dopo le critiche che gli sono piovute addosso dai vertici del partito, da Walter Veltroni e da Antonio Bassolino, ha provato a correggere il tiro, a spiegare il senso di quel manifesto e di quel titolo. «Se c'è stato uno sconfinamento questo non è avvenuto a causa di un manifesto che ha rappresentato le continue, reiterate, inascoltate richieste per assicurare, soprattutto ai Rom, condizioni di maggiore civiltà». Insomma, per chi non l'avesse capito, l'Onorevole Peppe Russo ha scritto quel manifesto per il bene stesso dei rom.
Ma il bello della faccenda deve ancora venire: il giorno prima dell'affissione del Pd, il circolo Ponticelli di Alleanza Nazionale aveva tappezzato il quartiere con un manifesto dai toni ben più tiepidi di quelli dettati dall'onorevole Russo. Di qui la reazione di An, la quale, di fronte a quel sorpasso a destra da parte del Pd ha immediatamente prodotto un nuovo manifesto dai toni, per così dire, più espliciti.
Non solo Pd però. A sentirsi in croce per quanto accaduto la scorsa settimana a Ponticelli è un po' tutto il centrosinistra. In quindici anni di gestione del Comune e della Regione Campania, i problemi son tutti lì, ammassati insieme alla monnezza. L'ultima trovata è stata quella del divieto di fumo nei parchi pubblici napoletani per prevenire malformazioni al feto e le malattie polmonari. Il tutto nei giorni in cui la diossina prodotta dai roghi dei rifiuti si infilava nei vicoli della città, nelle case e nelle culle dei neonati.
Poi è arrivato Silvio Berlusconi. La sua parata, il suo show ha molto impressionato gli abitanti di Napoli e di Ponticelli. «Ora sistema tutto», sussurrano i napoletani. E che Berlusconi punti a prendersi la città è un fatto. Ha tagliato i vertici del partito ed ha piazzato gente sveglia, giovane e dinamica. «Abbiamo poco tempo per rimediare a una situazione drammatica. La sinistra deve ritrovare se stessa, tornare a parlare con i cittadini - dice Sempre Fabio dell'associazione Libera - Il problema è che questo centrosinistra è stanco. Anche rifondazione fatica a incontrare la politica», dice mentre entra nella scuola elementare Enrico Toti per prendere i temi sulla legalità che hanno preparato i bambini. «Ecco, lo vedi - dice ancora - è così che Don Luigi Ciotti ci ha insegnato a incontrare la politica. In mezzo alla strada, tra la gente. Tutto il resto so chiacchiere».
Per non parlare di Ponticelli. Sono decenni che il municipio è in mano al centrosinistra. La chiamavano la Stalingrado di Napoli. Ma di quella Stalingrado sono rimaste solo le macerie e le ceneri del campo rom di Via Malibran.

giovedì 15 maggio 2008

Tra i rom del Casilino900



Ieri sono stato al campo nomadi del Casilino900 di Roma. Questo è quello che ho visto. Già mi accusano di essermi bevuto il cervello, forse hanno ragione. Ma questo è esattamente quello che ho visto e sentito...

Bambini. Il campo rom più antico di Roma è un covo "pericolosissimo" di bambini. Tra i 600 residenti, la metà ha meno di 14 anni e tutti, dal primo all'ultimo, vanno a scuola. Poi tornano a casa, fanno i compiti, un po' di televisione e infine a nanna. Chi fosse a caccia di facili esotismi metropolitani ne rimarrebbe deluso, così come rimarrebbe deluso chi cercasse di scovare scippatori, stupratori o "rubabambini".
Il Casilino900 non è un campo rom qualsiasi. E' un organo vitale e fertile della capitale che in quarant'anni di esistenza si è integrato quasi perfettamente nel quartiere. Nulla di esotico, certo. Eppure, talvolta, girovagando tra quelle baracche colorate, si ha l'impressione di essere finiti dentro Macondo, la città magica nata dalla penna di Gabriel García Márquez. E poi loro, quei bambini: scalzi, vestiti con abiti logori ma sorridenti; sempre sorridenti. C'è qualcosa di solare al Casilino900. Certo, c'è il disagio di vivere in una situazione igienica sempre precaria, ma c'è anche qualcosa di lieve. Qualcosa che i figli del nostro benessere hanno dimenticato.
Anche don Paolo, che frequenta il campo da circa un anno, parla di qualcosa di dolce, di leggero: «E' un tipo di vita che ci riporta all'essenza». In zona nessuno lamenta scippi nè ha mai sentito parlare di bambini rubati. E sì, quando si parla di Rom non si parla di bambini rapiti: meglio dire rubati. E' un termine favolesco, facile da far capire ai bambini italiani che devono stare alla larga da quella gente lì. Gente pericolosa e sporca. Gente che ruba i bambini.
«Rubare bambini noi? - sorride Hakija, della comunità bosniaca del campo - ma se ogni coppia ha almeno cinque figli. Io ne ho addirittura otto. Perchè dovremmo rubare i figli degli altri?».
«Io non capisco cosa stia succedendo nel nostro Paese - fa eco Najo Adzovic, coordinatore del campo e scrittore - dal giorno della morte della signora Giovanna Reggiani siamo diventati il pericolo pubblico numero uno. Hanno già provato a sgomberarci, ad abbattere le nostre case, ma abbiamo mobilitato tutti i nostri amici e le ruspe, almeno per ora, si sono fermate».
Già, per ora. Ma a sentire i proclami che arrivano dal nuovo inquilino del Campidoglio c'è poco da stare sereni. Lo sgombero, infatti, è sempre lì che aleggia come un ombra, uno spettro. Una spada di Damocle sospesa sulla testa di ognuna di queste persone, su ognuna di queste esistenze. «Io non so più cosa fare - racconta Klej, con un bimbo appeso al collo che giocherella con la sua collana d'oro - ho otto figli. Sono nati tutti qui, sono italiani. Sette di loro vanno già a scuola e il prossimo anno dovremmo iscrivere anche il più piccolo. Se ci cacciano non so proprio dove andremo e non saprei spiegare ai miei figli perchè non ci vogliono e perchè non potranno più andare a scuola con i loro amichetti. Siamo davvero preoccupati, disperati».
Come se non bastasse ieri l'altro è arrivata anche la notizia del commissario straordinario per l'emergenza rom. «Un commissario? - ripete incredulo Najo - noi non abbiamo bisogno di nessun commissario, noi non siamo un'emergenza, noi siamo un popolo pacifico che non ha mai fatto una guerra e che ha subito un olocausto nel quale sono morti, sono stati uccisi decine di migliaia di nostri fratelli. So di dire una cosa forte - prosegue Najo - ma anche Hitler ha iniziato in questo modo. Lo sterminio è stato un punto d'arrivo di un percorso graduale: prima ci hanno demonizzato, poi ci hanno allontanato dalle città privandoci di qualsiasi forma di lavoro. A quel punto, è evidente che qualcuno ha iniziato a rubare per fame, per nutrire i propri figli. E così il cerchio si è chiuso. E' bastata qualche patata rubata per far dire: "ecco gli zingari rubano"». La fine, anche se troppo spesso qualcuno la dimentica, è nota: 250mila rom deportati e uccisi. E'il Porajmos, la "devastazione", la loro Shoah.
E dire che Najo, col sostegno convinto di tutta la comunità, lavora ventiquattro ore su ventiquattro per aprire il Casilino900 al quartiere. Per prevenire possibili attriti e far conoscere ai cittadini del VII municipio il loro stile di vita e le loro tradizioni. «Spesso - dice sconsolato dalle notizie che arrivano da Napoli - invitiamo i compagni di scuola dei nostri figli. E' un modo per integrarci e tranquillizzare il quartiere». Najo si è imposto affinchè all'entrata del campo ci fosse una scritta "ecumenica": «Figli di uno stesso padre». Una speranza.
Eppure la valanga anti-rom che si è abbattuta sul Paese non risparmia neanche loro. Tanto per cominciare, per chiarire che aria tira, hanno staccato la luce. «E' successo d'improvviso ed ora non abbiamo più la corrente elettrica. Ma la responsabilità non è del nuovo sindaco Gianni Alemanno, la luce ce l'ha tolta la giunta precedente». Un modo carino per far capire loro che la presenza lì non era più gradita. Una delle tante stranezze accadute nei giorni dell'omicidio Reggiani, nei giorni in cui Gianfranco Fini, colui che di lì a poco sarebbe divenuto il presidente della Camera, perlustrava le «zone del disagio» con l'elicottero promettendo decine di migliaia di espulsioni; e nei giorni in cui il sindaco di Roma Walter Veltroni moltiplicava gli sgomberi e correva in consiglio dei ministri per convincere l'allora premier Prodi a varare un nuovo decreto esplusioni.
Parole e decreti che piovevano come macini sulle vite di queste persone. «Quei giorni lì - continua Najo - ci sentivamo assediati. Venivamo tutti additati come assassini e stupratori. Ho provato rabbia e dolore. Noi abbiamo un codice secolare che si fonda sul rispetto assoluto delle donne, dei bambini e dei nostri vecchi. Erano e sono accuse che bruciano come ferite».
E mentre Najo si sfoga, un "vecchio", dal volto rugoso è intento a lavorare un foglio di rame. Accanto a lui una montagnola di rifiuti che seleziona con sapienza. Sono i nostri rifiuti, i nostri scarti che vengono ripuliti e riutilizzati in mille modi. Spesso rivenduti al mercatino di zona che i rom del Casilino900 organizzano ogni domenica. Il "vecchio" non parla italiano, ma saluta gentile con i suoi occhi sereni. «Ne ha passate davvero tante», dice Najo.
Fatto sta che il Casilino900 rischia di essere spazzato via. Li accanto sta nascendo la metropolitana e in molti vorrebbero i rom, tutti i rom, fuori dal raccordo anulare, l'anello autostradale che circonda, delimita la capitale. «Sarebbe una vero dramma, saremmo isolati. Gli anni di scolarizzazione e tutti gli sforzi di mediazione e integrazione sarebbero vanificati, cancellati dalle ruspe».
Nel corso degli ultimi sgomberi voluti da Veltroni, e prima che il nostro si dedicasse alla campagna elettorale, una foto ritraeva un caterpillar della Repubblica italiana sopra un libro, un sussidiario delle elementari schiacciato e immerso nel fango. Un'istantanea devastante: dietro quel libro c'era lo sforzo di chissà quante persone, uno sforzo ed un lavoro per l'integrazione durato anni. Uno sforzo che alla fine aveva vinto. Quel libro era di un bambino rom che frequentava la scuola, la nostra scuola. L'istruzione era un suo diritto e i suoi genitori lo avevano capito. E' bastato il battito di un ciglio del sindaco e un colpo di quel caterpillar per vanificare tutto.
Don Paolo, del seminario romano maggiore, frequenta da circa un anno il Casilino900. E' capitato lì quasi per caso e ha deciso che quel campo poteva servire a far crescere i suoi giovani allievi: «C'è un clima molto confuso intorno alla questione dei rom. Io - continua don Paolo - sono convinto che l'esperienza del Casilino900, pur con tutti i suoi limiti, possa rappresentare un modello. Loro iniziano ad autorappresentarsi, a dialogare e confrontarsi in prima persona con gli amministratori per cercare di soluzioni comuni».
Nel frattempo, mentre nel campo iniziano a preparare il pranzo per i bambini che tornano da scuola, Gianni Alemanno continua a proporre il commissario straordinario per i rom. «Qui non stiamo parlando della storica presenze di sinti o giostrai, o la classica presenza di nomadi nel nostro Paese - ha aggiunto il sindaco - ma di un'invasione che si sta determinando nei confini comunitari con dei flussi crescenti». Eppure, in attesa del supercommissario, delle epurazioni, la vita al Casilino900 scorre lieve. «In fondo - conclude Najo - ne abbiamo passate di peggio».

mercoledì 7 maggio 2008

Errata

No, no. Mi correggo, Maroni ha detto una cosa molto più interessante:

Tra gli obiettivi che il nuovo governo dovrà perseguire c'è la sconfitta del «senso di insicurezza», percepito dai cittadini italiani. A sostenerlo, prima dell'inizio della gara amichevole di calcio tra Padania e Tibet è il neo ministro dell'Interno, Roberto Maroni. «Lascia qualche cosa buona - ha replicato Maroni a chi gli chiedeva un commento sull'eredità del suo predecessore al Viminale, Giuliano Amato - come il patto sicurezza delle città ma lascia una sensazione diffusa di insicurezza che non corrisponde sempre ai dati di fatto. L'Istat - ha proseguito Maroni - ha detto oggi che in Italia è molto diminuito il numero degli omicidi e che, da questo punto di vista, l'Italia è addirittura il paese più sicuro in Europa». A giudizio di Maroni, quello che il nuovo esecutivo deve «sconfiggere è il senso di insicurezza percepito e legato, peraltro, a tanti episodi di criminalità: su questo il governo non ha lavorato bene». (ANSA)

Ai capito er Maroni? No dico. E ora sti qui - leghisti e post fascisti - dopo aver tanto pompato l'insicurezza descrivendo l'Italia del centrosinistra alla mercè degli immigrati assassini, si ritrovano a gestire una situazione difficile assai. E che gli italiani ora si aspettano che sti qui facciano il loro mestiere e ripuliscano il Paese. E visto che il Paese - e questo lorsignori lo sanno bene - non si ripulisce proclamando espulsioni di massa, ora non possono far altro che provare a correggere il tiro......

Oggi, sicurezza

Alemanno, sindaco de Roma, ha sfoderato i 4 punti per migliorare la capitale: via i rom, via le prostitute e via i mendicanti;
Maroni, ministro dell'interno in pectore (in pectore di Bossi), ha detto che la sicurezza è la priorità;
Intanto l'Istat dice che gli omidi diminuiscono nettamente e che l'Italia è uno dei paesi più sicuri d'Europa...
Come la mettiamo?

Sindaco di tutti ma non dei gay

Dopo il festival del cinema autarchico - «bisogna preservare l'identità del cinema italiano» - e la dura battaglia contro la teca dell'Ara Pacis - «è brutta, va rimossa» -, il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha trovato un nuovo obiettivo: rendere presentabile e decoroso il Gay Pride. «E' un fatto di esibizionismo sessuale ed io sono contrario all'esibizionismo, sia omosessuale che eterosessuale», ha dichiarato, ieri, davanti ai microfoni della Rai. Alemanno, dunque, non le manda a dire e chiarisce subito i confini entro i quali potrà muoversi il movimento gay capitolino nei prossimi cinque anni.
Ma quella del sindaco è più di una semplice "battaglia di civiltà", a ben vedere le sue parole contengono anche un "benevolo" consiglio alla comunità Lgbtq tutta. Quella del Gay Pride, infatti, sarebbe una «ostentazione non positiva anche per chi manifesta».
Insomma, passati i giorni dei grandi proclami bipartisan - «sarò il sindaco di tutti, anche di chi non mi ha votato» -, Gianni Alemanno ha scelto il tema dell'omosessualità per segnare la linea e l'identità della nuova amministrazione. Per chiarire di chi non sarà il sindaco.

lunedì 5 maggio 2008

figlio di un gay...




In Italia si calcola che siano centomila i minori con almeno un genitore gay. Ci sono quelli nati da unioni eterosessuali, poi sfociate in un divorzio, ma molti, sempre di più, sono invece vissuti sin dall’inizio in una casa con due mamme e due papà.

Per coronare il loro sogno molti vanno all’estero. Le lesbiche in Spagna o nel nord Europa dove possono ricorrere alla fecondazione assistita. Gli uomini in Canada o negli Stati Uniti in cerca di una madre surrogata. Altre coppie, invece, scelgono la strada del fai da te. Le donne ricorrono all’autoinseminazione o cercano un donatore amico.

Nel libro "Bambini ai gay"? Margherita Bottino, psicologa, e Daniela Danna, sociologa, descrivono i figli degli omosessuali come bambini più tolleranti, meno conformi agli stereotipi di genere, cresciuti da genitori con più alto grado di istruzione e di autoconsapevolezza di quelli eterosessuali. «È chiaro — spiega ancora Scaparro —che un bambino o una bambina che cresce in una famiglia omosessuale è portato a vedere con occhio più favorevole le diversità, ad essere magari meno conformista. Questo non è né un vantaggio né uno svantaggio. Il vero pericolo per questi bambini sono i pregiudizi di una società, la nostra, in cui la famiglia è quella tradizionale, sposata, magari in chiesa. Su questo c’è da combattere ».

mercoledì 30 aprile 2008

Sinistra non ti vedo

Dice Crozza, il grande Crozza, che il problema non è che la sinistra non ascolta la gente, ma che è la gente che non ascolta più la sinistra. Io non so bene cosa intenda dire Crozza. Ma la mia idea è che la gente, i cittadini come ci piace chiamarla (la gente) a noi di sinistra, non ha bisogno di una copia poco piu moderata delle idee di destra.
La sicurezza per esempio. Ecco, la destra dice: cacciamo i migranti clandestini, stringiamo le maglie del controllo e presidiamo le città. Ammesso e non concesso che la sicurezza sia davvero l'emergenza del momento (io personalmente non ci credo neanche un po'), quale deve essere l'atteggiamento della sinistra?
Per me, ed è per questo che la voto, la sinistra dovrebbe offrire una alternativa radicalemente diversa a quella ricettina inutile e irrealizzabile di Bossi e Co. Dovrebbe saper spiegare giorno dopo giorno il fenomeno dell'immigrazione, dire alla gente che il 99% dei migranti vengono qui per lavorare (allevare i nostri figli, badare i nostri vecchi, costruire le nostre case..), dire loro che la povertà genera microdelinquenaza, dire loro che questi vengono per mangiare o per fuggire dalla guerra ( spesso le nostre guerre), dire loro che il problema non si risolve cacciando tutti i clandestini (cosa irrealizzabile nei fatti) ma investendo nelle politiche e nelle strutture di accoglienza. Sennò che cazzo di sinistra è. Non è che per difendere i penultimi (la gente), noi dobbiamo accanirci con gli ultimi ( i migranti)...

sabato 26 aprile 2008

Veline svelate



Al casting per entrare a far parte del programma "Striscia la notizia". Il sogno nel cassetto? Fare successo in tv

«La cipria, dove cazzo sta la cipriaaaa?».«Calmati Isa - risponde mamma Giulia - la cipria ce l'ha tua sorella».«Elenaaa, la cipria. Non posso presentarmi co 'sta faccia».Nel frattempo arriva una giornalista con telecamera al seguito. «Scusami - dice rivolta a Isa - posso farti qualche domanda?».Lei si volta, si accorge che quella telecamera è puntata proprio su di lei, e nel giro di un millisecondo trasforma quel volto teso ed imbronciato in uno splendido sorriso a trentadue denti. Dopo le domande di routine - «chi sei, come mai sei qui, quanti anni hai e sogno nel cassetto» - il cameraman le chiede due passi di danza ed un gridolino di felicità «che fa tanto aspirante velina». Isa non ci pensa neanche un attimo: parte con una samba in salsa romanesca che farebbe invidia all'intero Stato di Bahia e butta lì un "gridolino" degno della ragazza Playboy del mese: «Yupiiii».E' il casting di Veline che si è svolto ieri a Roma. Una selezione nazionale per decidere chi sarà la prossima fortunatissima ragazzina che sculetterà sul banco dei conduttori della nota trasmissione di Antonio Ricci. E poi da lì, chissà che non si riesca a fare il grande salto: diventare valletta di Controcampo o, meglio ancora, "letterina" da Gerri Scotti.L'organizzazione allestita dalla direzione di TalentsFactory di Mediaset è ferrea: prima si passa per una stanza in cui si danno le generalità: nome, cognome ed età; poi è la volta della foto con tanto di numeretto appeso al collo - «Profilo destro, ora sinistro. Guarda la camera. Su i capelli, un bel sorriso. Bene. Grazie. Avanti un'altra». Infine, via in camerino per prepararsi all'esibizione sul palco e mostrare il proprio talento.E sì perché, almeno a sentire Enrico De Angelini, coordinatore di tutto il baraccone, le caratteristiche irrinunciabili della velina ideale devono essere tre: «Talento, semplicità e umiltà». Talento, semplicità e umiltà, d'accordo. E poi? «Beh, non solo quello, certo - ammette De Angelini - serve anche una certa presenza...» Una presenza in che senso? «Beh una bella presenza, è chiaro».Nel frattempo inizia la sfilata, e a suffragare le parole di De Angelini si presenta Laura, 21 anni, provincia Brindisi: 175 cm circa, pelle color ambra, occhi azzurri e fisico da modella valorizzato da un tanga, per così dire, essenziale. Laura chiarisce subito il senso della sua presenza: «Ho fatto miss Italia ma non credo di essere riuscita ad esprimere tutta la mia personalità. Spero di entrare in Veline in Tour per riuscire a far capire al pubblico italiano chi sono davvero».De Angelini annuisce soddisfatto e chiede subito una prova visibile di quella personalità: «Bene Laura, appena parte la base dello "stacchetto" musicale di Striscia, dovresti iniziare a ballare come se ti trovassi accanto a Ezio Greggio». «Lei è Laura Giglio», spiega un ragazzo biondino seduto in platea. «Laura fa parte del mio gruppo di giovane talenti. Siamo partiti da Brindisi alle 4 di notte per essere qui. Laura è speciale, ne vale la pena».Nel frattempo, mentre la selezione va avanti, intorno al palco in cui si esibiscono le aspiranti veline si è generato un vero e proprio bazar dello spettacolo. Un circo Barnum fatto di stand per aspiranti attori, scuole di recitazione, scuole di musica, di ballo e via dicendo. Una fiera delle vanità in cui si aggira un sottobosco di manager di provincia in cerca del cavallo vincente, quello che può "svoltare" una carriera e farti entrare nel giro giusto. Il giro che conta.Tra loro c'è Antony, anzi, Anthony con l'acca al centro: completo gessato nero e cravattino slegato che scende leggero lungo una camicia immacolata. Lui è un fotografo calendarista. Difficile resistere al richiamo del calendario, per questo Anthony con l'acca al centro, diventa un punto di passaggio quasi obbligato per tutte le aspiranti veline. «Vedi - spiega a Sonia - io ti faccio un paio di foto e un piccolo filmino. Cerchiamo ragazze sensuali e ironiche, ragazze che stanno al gioco».Poco più un là, un uomo piuttosto corpulento, e sua figlia, una giovane piuttosto procace, si avvicinano allo stand di una sedicente scuola di cinema e chiedono la strada migliore per fare un provino: «Perchè io - dice l'omone - credo che mia figlia abbia le doti giuste per sfondare». Il ragazzo annuisce vistosamente, è uno che la sa lunga lui, e inizia con le "dritte": «Prima di tutto serve un book fotografico con varie pose: una foto in abito da sera, una acqua e sapone ed una in costume. Poi un paio di primi piani...». «Scusi - chiede il padre - ma una scuola di recitazione?» «Certo, certo - ride lui - quello era scontato».Ma sul palco - il centro di tutto il baraccone - la selezione delle veline continua. C'è Giulia, «protagonista di alcuni fotoromanzi e modella della pelletteria Macrì di Bari»; poi Sara, «22 anni, miss Ostia nel 2006 e ballerina di Hip-hop» e Claudia, «cubista in riviera, studentessa del terzo anno di giurisprudenza e modella per abiti da sposa». Per tutte, la stessa cerimonia: come ti chiami, da dove vieni, esperienze passate. Poi una piccola sfilata, lato A e lato B, un sorriso, e un balletto con il solito "stacchetto" di Striscia la notizia .In platea c'è un esercito di mamme, sorelle, fidanzati, amici e amiche che fanno il tifo e commentano - commentano scannerizzandola - ogni concorrente che passa su quel palco; «Quella lì? Ma no, c'ha il culo troppo basso». E le altre? «Capelli secchi», «sgraziata», «ma chi gli ha insegnato a ballà», «troppe tette», «poche tette»...C'è anche la mamma di Claudia: «Io - dice con una videofotocamera appesa al collo - sono convinta che mia figlia ce la farà. E' la seconda volta che ci proviamo, stavolta ce la farà».Tutt'intorno a quel palco c'è Roma. Forse la stessa Roma rappresenta da Luchino Visconti e Anna Magnani in Bellissima . Certo, è una Roma con qualche ruga di meno, nascosta com'è dal fondo tinta delle nuove luci della ribalta. Ma è sempre quella Roma lì: ambiziosa, disperata e un po' cialtrona. Quello che manca, forse, è proprio un Visconti e una Magnani che le strappi quella maschera di dosso.

venerdì 4 aprile 2008

Ecchesaràmai


Leggo, stupito, l'indignazione di fronte alle uova lanciate contro Giuliano Ferrara a Bologna. Dal centrosinistra alla sinistra cosiddetta radicale, tutti hanno difeso il diritto ad esprimersi del difensore della vita prima della vita. Ma non si ricordano lorsignori di quando il giulianone rotolava dalla scale di Valle Giulia dove, verosimilmente, ebbe a lanciare qualcosa di più di un uovo? Oppure il nostro s'è arrabbiato perchè anche un uovo di gallina è una vita in embrione?
Insomma, vedo questi cinquantenni - gli stessi che da ventenni hanno animato le piazze italiane con modi di certo più decisi - sempre più sclerotizzati e perbenisti anche di fronte ad una contestazione che mi è sembrata più goliardica che violenta...

martedì 1 aprile 2008

«Io medico di strada, vi racconto le vere schifezze dell'Italia»


Cinecittà, periferia sud di Roma. Una piazza. Al centro della piazza un container colorato e una scritta: «Ambulatorio medico». Dentro, un uomo seduto dietro una piccola scrivania rimediata chissà dove e una borsa, una borsetta logora da medico della mutua. L'uomo, illuminato da una luce al neon appoggiata al muro, si chiama Antonio Calabrò, il dottor Antonio Calabrò. «Che ci faccio qui? Faccio solo il mio lavoro, cerco di guarire e assistere chi si ammala».
In realtà nessuno ha chiesto mai ad Antonio Calabrò di piazzarsi lì. Nessuno lo paga - il suo lavoro di medico è al Fatebenefratelli - e solo qualcuno lo aiuta. Di certo non lo aiuta l'Acea, la multinazionale che si occupa di fornire luce e acqua ai cittadini romani ma che ha deciso di lasciare senza elettricità questo medico di frontiera. Un dimenticanza? Forse sì, in fin dei conti i suoi pazienti non valgono molto: sono rom, romeni, polacchi e tutta quella umanità varia che si aggira nelle metropoli del Belpaese. Un popolo di invisibili, di fantasmi che ogni santo giorno che Dio manda in terra cerca di sbarcare il lunario per rimediare un pasto, un posto caldo dove passare la notte e, quando la situazione è particolarmente grave, un medico.
«Sono stati giorni molto pesanti - racconta il dottor Calabrò -. Il sindaco ha deciso di far sgomberare le baracche di Tor Bella Monaca e centinaia di persone, soprattutto donne incinta e bambini, hanno passato questo week-end di Pasqua sotto la pioggia». Risultato del blitz? «L'ambulatorio è stato invaso da ragazzini con problemi respiratori anche gravi». E sì, a Roma ultimamente funziona così. La polizia arriva a sirene spiegate e loro, i fantasmi che arrivano dall'Est e dal Sud del mondo, scappano come bestie, bestie braccate dai manganelli delle forze dell'ordine. Una fuga disperata verso le campagne di Roma: Vermicino, Tor Vergata, Frascati...
Poi la polizia se ne va e loro possono tornare a rimettere in piedi le baracche sventrate dalle ruspe della Repubblica italiana. Fatto sta che questa santa pasqua il dottor Calabrò l'ha passata a curare le bronchiti di quei «poveri cristi».
E di Cristo il dottore ha un'idea molto chiara, quasi intima: «Lui è nato, è vissuto ed è morto in mezzo alla strada, al fianco degli ultimi, dei disperati. Per me - aggiunge poi - il vangelo è questo». Lunga storia quella del dottor Calabrò: «Sono nato lì - dice indicando l'enorme struttura dei salesiani della Tuscolana - Sono cresciuto e mi sono formato sui libri dei teologi della liberazione. A quel tempo i preti ci facevano imparare a memoria "La pedagogia degli oppressi" di Paulo Freire». Sarà per questo che il dottor Calabrò si ostina a pensare che Cristo è soprattutto lì, tra le baracche di Cinecittà: «Paradossalmente - dice - bisogna scendere all'inferno per riscoprire e ritrovare Gesù Cristo».
D'improvviso arriva la signora Carmela: «Dottore - chiede concitata - ce li ha i risultati delle analisi del ragazzo di ieri?». «Sì, credo che siano pronte, ma ho bisogno del nome e cognome», risponde lui. «Nome e cognome? E chi se lo ricorda. Lo sai quanti ce ne ho di questi qui? Non posso ricordarmi tutti i nomi». La signora Carmela è un'altra volontaria che ogni giorno offre un pasto caldo a chi ne ha bisogno, gli lava i panni e organizza le visite mediche, le spedizioni dal dottor Calabrò. «E' stato un periodo davvero difficile - dice ancora la signora Carmela - dal giorno dell'assassinio della signora Reggiani - la donna aggredita e uccisa a Ponte Milvio da un rumeno - si è creato un clima da caccia alle streghe. Questi qui - sbotta poi - sono esseri umani, essere umani come noi».
«Il problema - fa eco il dottor Calabrò - è che se non diamo un volto a questi disperati, se non ci rendiamo conto che dietro la parola rom, rumeno o extracomunitario c'è un uomo in carne ed ossa, non cambierà mai nulla. Per questo le persone tollerano, tollerano senza muovere un dito, le truppe cammellate di Veltroni che sgombrano i campi e le baraccopoli. Nessuno pensa davvero che dentro quelle baracche vivono donne, uomini e bambini in carne e ossa».
Fatto sta che la presenza della signora Carmela rende bene l'idea della rete che si muove intorno al dottor Calabrò. Una rete di solidarietà che si alimenta grazie alla radicalità, la radicalità vera e vissuta ogni giorno nelle strade di questa Roma. «Quando immanenza e trascendenza si incontrano - spiega sorridendo il dottore - si possono fare miracoli veri». Già, miracoli. Come quella volta che hanno salvato una giovane rom di 28 anni alla sua settima gravidanza. «Aveva subito il distacco della placenta. Rischiava davvero di morire. Le ambulanze non si trovavano, allora ho spedito mia figlia che è andata al campo, l'ha caricata in macchina e me l'ha portata in ospedale dove era pronta la sala operatoria. L'abbiamo salvata per il rotto della cuffia».
Poi la politica. E sì perchè grazie alle insistenze di Sandro Medici, presidente del municipio, il dottor Calabrò ha deciso di candidarsi nelle liste della Sinistra Arcobaleno. «Una decisione sofferta - ammette sorridendo - ho dovuto chiedere permesso a Padre Zanotelli, uno che ha trovato Cristo nell'inferno di Korogocho, perchè tra noi c'era la promessa di non entrare in politica per nessuna ragione». «Nulla a che vedere con Grillo, sia chiaro», specifica poi. «Io alla politica, la politica con la P maiuscola ci credo eccome. E' ai partiti, a quello che è rimasto dei partiti che non credo».
«Come mai la politica allontana persone come Antonio Calabrò? Me lo chiedo anch'io - ammette Sandro Medici - Certo è che se la politica si riduce alla gestione tecnica del territorio, se non riesce a trasmettere valori dando spazio a queste esperienze, il problema è dei partiti e non di queste persone che fanno scelte così radicali e totalizzanti».
Fatto sta che alla fine il dottor Calabrò si è convinto a provare la strada della politica: «Ho chiesto a Sandro di potermi occupare dei giovani. E' da lì che bisogna ricominciare per dare una speranza a questo Paese. Io ho cinque figli e so come diavolo vivono i ragazzi. Sono solo tubi digerenti. Non c'è nessuno che li prende per mano e gli sbatte in faccia la realtà del mondo vero. Le parrocchie sono vuote e le sezioni del Pci chiuse per sempre. Chi si occupa di loro? La televisione?».
E se gli chiedi del suo programma elettorale, il dottor Calabrò tira fuori un documento logoro dalla sua borsetta. «Vedi? - dice soddisfatto - questo è un documento che ho scritto insieme a padre Zanotelli e don Andrea Santoro. Si chiama "La Politica che vogliamo"». Un documento che sa guardare lontano, che vola alto ma che vuole agire nei singoli territori: «Ci sentiamo lontani da quelle scelte politiche che in questi anni hanno reso ancora più evidenti le logiche militariste e di guerra, le privatizzazioni dei beni comuni, la discriminazione e l'intolleranza verso immigrati e stranieri, la precarizzazione del lavoro». Ed ancora: «Il nostro Paese vive un declino politico economico, sociale e culturale che è frutto della palese incapacità delle classi dirigenti in ogni campo della società (la politica, l'economia, la cultura e i media) di dare risposte innovative, e centrate sul principio della solidarietà, della responsabilità, della cultura civile, alle sfide ed emergenze che viviamo».
«Dobbiamo lavorare tutti insieme, a partire dalle persone, i piccoli gruppi, reti, comitati, iniziative locali, unire le forze subito e darci un ?programma minimo? assicurando centralità alle mobilitazioni locali per i beni comuni e contro le grandi opere, la devastazione del territorio, le basi militari, nello spirito del movimento di Genova, e rilanciare le nuove forme della democrazia partecipata e deliberativa e contro ogni collateralismo o cooptazione subalterna nelle istituzioni - la proposta di una autonoma identità politica delle soggettività sociali e dei movimenti».
Nel frattempo scende la sera. E' arrivata l'ora di chiudere l'ambulatorio. Poco distante campeggia una ciotola piena di polpette e di latte. «Sono le gattare - spega il dottor Calabrò - Cucinano ogni ben di Dio per gli animali del quartiere. Se al posto dei gatti c'era qualche migrante poteva anche morire di fame».

lunedì 3 marzo 2008

Ancora guaritori di Gay

Il grande Calabresi si è finto Joseph Nicolosi ed è andato a trovare...

sabato 1 marzo 2008

il mio ultimo articolo sey gay? La Chiesa fa i corsi clandestini di riabilitazione

Sey gay? La Chiesa fa i corsi clandestini di riabilitazione

Dall'inchiesta di Davide Varì del quotidiano "Liberazione":

L'appuntamento è con Don Giacomo nella sede delle edizioni Paoline poco lontano dalla Garbatella, ex quartiere popolare di Roma. Un incontro per definire tempi e modi del mio ingresso in un gruppo terapeutico per guarire dall'omosessualità. Un appuntamento sudato: i sedicenti guaritori di gay, almeno in Italia, non vogliono troppa pubblicità. Per rintracciare quello italiano ho dovuto chiamare un gruppo omologo svizzero che mi ha girato la sede milanese di "Obiettivo Chaire", un'associazione ultracattolica che organizza, sì, incontri terapeutici, ma soltanto a Milano. Alla fine mi indicano Don Giacomo qui a Roma, un giovane prelato che, dicono loro, può aiutarmi. E ora, dopo quel lungo peregrinare, ci sono: finalmente sono di fronte allo studio di Don Giacomo. La prima tappa del mio percorso di "guarigione". Un percorso durato circa sei mesi nei quali mi sono ritrovato immerso in un mondo parallelo fatto di reticenze, mezze verità, ambiguità e strane alleanze tra ambienti del Vaticano e alcuni gruppi di psicologi guidati dal Professor Tonino Cantelmi, presidente e fondatore dell'Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici e docente di psicologia all'Università Gregoriana.
Ma prima c'è don Giacomo, il primo livello di valutazione della "gravità del paziente" spetta infatti a lui, a un rappresentante della Chiesa cattolica. Don Giacomo è gentile. Dopo vari colloqui telefonici nei quali, con molta discrezione e molto tatto, mi chiede i motivi che mi spingono verso questa terapia, arriva il momento dell'incontro. Dopo una breve presentazione, inizia il colloquio vero e proprio.


Le domande fondamentali sono due o tre: quanti rapporti omosessuali ho consumato, con quale frequenza e le sensazioni che ho provato. Gli racconto quasi tutta la verità, tutta tranne il fatto che sono un giornalista e che non sono omosessuale. Gli dico che sono sposato, che ho un bambina e butto lì un paio di esperienze omosessuali legate alla mia adolescenza e la preoccupazione che quelle esperienze possano tornare a galla e rovinare il mio matrimonio. Don Giacomo ascolta con partecipazione. Poi inizia il lavoro d'indagine per capire le ragioni della mia omosessualità. Mi chiede dei miei genitori, del rapporto con mia madre - rispetto alla quale tiro fuori un bel conflitto. Fa sempre bene, penso: ai preti e agli psicologi piace - gli racconto del ruolo marginale di mio padre, dei rapporti sessuali con mia moglie, le relazioni interpersonali e così via. Una scannerizzazione superficiale ma completa del mio vissuto.
Poi la domanda: «Quando è stata la prima volta, Davide», mi chiede Don Giacomo. Gli racconto di un mio compagno di liceo, di tale Luca, col quale ero molto amico e di come quell'amicizia, col tempo e in modo del tutto inaspettato, si fosse trasformata in relazione sessuale. Don Giacomo ascolta con attenzione e partecipazione. Mi vede provato e cambia discorso: «Credi in Dio?» mi chiede. Io rispondo che provengo da una famiglia molto religiosa ma che no, non ho mai praticato. Ma ultimamente, aggiungo, sento rinascere in me qualcosa di diverso. È il momento più delicato, il momento in cui bisogna scegliere se andare fino in fondo passando sopra le sincere convinzioni religiose di Don Giacomo, oppure finirla lì e andarsene. 
E' come se mi prendessi gioco della sua fede, e forse nessuno mi da il diritto di arrivare fino a quel punto. Poi mi convinco che nella realtà quotidiana questi "guaritori di omosessuali" fanno solo danni: prendono una persona, nella gran parte dei casi spinta dalla famiglia, gli raccontano che la propria omosessualità è una deviazione dalla norma e la invitano a intraprendere, con loro, un percorso di guarigione, anzi, di "riparazione". Ed allora decido di andare avanti e raccolgo l'appello di Don Giacomo: «Preghiamo».

Mi forzo, e da ateo convinto prego con lui. Finito il momento di raccoglimento Don Giacomo, con la stessa delicatezza, mi invita a continuare il mio racconto. «La tua relazione con Luca - mi dice - è stata passiva o solo attiva?». Don Giacomo vuol sapere se ho «subito» oppure no una penetrazione. Deve essere solo quello il discrimine fondamentale per capire se davanti a sé c'è un vero omosessuale. «Attivo e passivo», dico di botto. «E mi è anche piaciuto», rispondo quasi in senso di sfida, di fronte a quella domanda così volgare. Volgare non per la cosa in sé, quanto, piuttosto perchè per la prima volta inizio a intravedere, o almeno così mi sembra, i veri pensieri di quel prete così giovane e cordiale. Uno squarcio che smaschera il giudizio che ha di me, anzi, di "quelli come me".

Don Giacomo annuisce in modo austero e poi mi chiede di parlargli degli altri rapporti. A quel punto tiro fuori una relazione fugace con un altro ragazzo "consumata" dopo il matrimonio. Don Giacomo mi invita a raccontare le sensazioni che avevo provato. Io mi invento un «senso di sporcizia morale» che vivo e mi porto dentro tuttora. Il giovane prete è silenzioso. Mi benedice e mi tranquillizza. «La tua omosessualità - dice - è molto superficiale. Io credo che tu sia pronto per iniziare il percorso di guarigione».

A quel punto sono io che faccio qualche domanda e chiedo lumi su quello che lui chiama "percorso". Don Giacomo, grosso modo, mi spiega che quasi tutti gli omosessuali hanno subito un trauma o qualcosa del genere che ha interrotto la "naturale" costruzione della vera identità sessuale. «Per questo - dice - servono terapie riparative. Per riprendere in mano quel vissuto, trovare la frattura e ridefinire la propria identità di genere. Tu sei in uno stato di confusione sessuale, devi farti aiutare per ridefinire la tua sessualità in modo corretto». Perfetto, sono pronto per iniziare il "percorso". Don Giacomo prende un pezzo di carta e scrive telefono e indirizzo del Professor Tonino Cantelmi, «chiamalo tra una settimana, digli che ti mando io, lui saprà già tutto». Mi benedice e mi congeda.

***

Il primo incontro con il professor Cantelmi

Lo studio del professor Tonino Cantelmi - Presidente dell'Istituto di Terapia Cognitivo interpersonale, c'è scritto nella targhetta - è un porto di mare nel quale transitano e approdano le preoccupazioni e le angosce di varia umanità: ragazzini, adolescenti, mamme, nonne. C'è di tutto in quello studio. Io mi accomodo e attendo di essere chiamato. Lui, il professore, ogni tanto esce e saluta il paziente di turno. Con tutti ha un rapporto molto confidenziale, tutti lo chiamano Tonino. Finalmente arriva il mio momento. Raccolgo le idee per evitare di contraddirmi rispetto alla storia che ho raccontato a Don Giacomo qualche settimana prima. Ripasso lo schema, i nomi inventati dei miei falsi amanti e mi infilo nello studio del Professore. Lui mi squadra, mi sorride e mi fa accomodare. «Sono Davide, gli dico, mi manda Don Giacomo». Lui annuisce - «con quel nome mi ha inserito nella categoria omosessuale pentito», penso tra me - e mi invita a raccontare la mia storia. A quel punto riparto con la vicenda del Liceo, della mia relazione col mio compagno di banco e dei timori rispetto al mio matrimonio dopo un'altra relazione avuta con un ragazzo un paio d'anni fa.

«Che tipo di rapporti hai avuto?», mi chiede Cantelmi.

Io faccio finta di non capire.

«Voglio dire - continua il Professore - hai avuto rapporti completi?».

Annuisco, ma aspetto che il professore esca dalla sua tana e mi ponga la domanda, la domanda con la D maiuscola, in modo diretto. E lui non mi delude: «Insomma Davide - mi dice schietto - sei stato anche passivo nei tuoi rapporti?».

Ci risiamo, penso tra me. «Sì», rispondo. Decido di fare la parte del laconico. Da un lato perchè ho paura di contraddirmi, dall'altro perchè voglio vedere le abilità del professore in azione. Son curioso di capire in che modo si muove. Come lavora. Ma lui mi sorprende e dopo quell'unica risposta, pronto a sbarazzarsi di me, prende carta e penna e scrive il nome di una collega: «Lei è la dottoressa Cacace - mi dice mentre mi porge il bigliettino - è una mia assistente, contattala a mio nome. Lei saprà già tutto». Mi sembra di rivedere un film già visto. Comunque io non voglio perdere l'occasione di ritrovarmi di fronte al "guru" italiano dei guaritori di gay e allora rilancio prima che lui mi liquidi. «Senta dottore - gli dico con il massimo di gentilezza - io vorrei capire di preciso cosa mi aspetta». «Nulla di particolare - fa lui - la dottoressa ti farà un test..»

«Un test?», faccio eco io

«Sì, un test»

«Un test per misurare il mio grado di omosessualità?», incalzo.

«Beh! In un certo senso sì», fa lui.

«Scusi - gli chiedo - ma cos'è di preciso l'omosessualità?»

A quel punto Cantelmi si accomoda, allunga le braccia sul tavolo e comincia: «Io - esordisce - parlerei della tua omosessualità, non di omosessualità in genere. Diciamo che noi siamo un gruppo di psicologi che cercano di aiutare persone in difficoltà. La nostra è una terapia riparativa»

***

La terapia riparativa: l'omosessualità come il comunismo

Si sentiva parlare da tempo di questi taumaturghi del sesso deviato. Una moda che spopola nel Nord America grazie al lavoro di molti gruppi legati alla Chiesa, e che segue l'insegnamento e la pratica di Joseph Nicolosi, presidente della Narth, National Association for Research and Therapy of Homosexuality. Uno psicologo clinico, questo Joseph Nicolosi, un "santone" che vanta ben 500 casi di «gay trattati» e curati - proprio così, «gay trattati» - e che ha tirato fuori dal cilindro della propria stregoneria psichiatrica la cosiddetta "terapia riparativa" il cui scopo dichiarato è quello di «ricondurre all'orientamento eterosessuale le persone omosessuali». Un messaggio che in Italia è stato ripreso e rilanciato dal Professor Tonino Cantelmi, presidente e fondatore dell'Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici e docente di psicologia all'Università Gregoriana. Insomma, il guru italiano della terapia riparativa, una persona legata a doppio nodo al Vaticano e intorno al quale è nato un gruppo di lavoro formato da cinque, sei giovani psicologi che seguono le terapie individuali dei futuri e "riparati" eterosessuali.

Questa della terapia riparativa è storia antica. Già nel 2005, la rivista Gay Pride pubblicò un lungo articolo nel quale ne metteva in dubbio ogni validità e attendibilità scientifica. Franco Grillini, presidente onorario dell'Arcigay, presentò anche un'interrogazione parlamentare per bloccare, tramite gli ordini professionali, la terapia riparativa. Anche per questo uno come J.M. van den Aardweg, lo psicoterapeuta americano che ha scritto "Omosessualità & speranza", parla di lobby gay all'assalto della scientificità. Tanto per capire cosa si muove dietro questa presunta terapia riparativa, lo stesso van den Aardweg sostiene - lo ha fatto in una recente intervista per "Acquaviva2000, cultura cattolica in rete" - che molti omosessuali «presentano seri disturbi mentali, o hanno sviluppato un comportamento omosessuale di proporzioni tali che non sarebbe tanto sbagliato chiamarli "malati"». Non solo, van den Aardweg è convinto che per colpa del movimento gay, «le masse non assimileranno mai completamente la concezione antinaturale che viene loro imposta. Andrà come con il comunismo. Molti, probabilmente i più, presteranno all'innaturale "religione" omosessuale un culto formale, dettatogli dalla paura, ma si finirà col crederci sempre di meno».

Questi sono gli illustri scienziati che sponsorizzano la terapia riparativa. Ancora più esplicite le parole d'ordine del già citato gruppo ultracattolico "Obiettivo Chaire": «Accompagnamento spirituale, psicologico e medico; attenzione rivolta a genitori, insegnanti ed educatori al fine di prevenire l'insorgere di tendenze omosessuali nei ragazzi, negli adolescenti e nei giovani; ricerca delle cause(spirituali, psicologiche, culturali, storiche) che contribuiscono alla diffusione di atteggiamenti contrari alla legge naturale, riconoscibile dalla ragione rettamente formata».

Poi l'immancabile Joseph Nicolosi, lo psicologo-clinico americano che ha inventato la terapia riparativa. A giorni sarà in Italia per aggiornare i suoi seguaci e illustrare loro, verosimilmente, le ultime novità della sua terapia. Queste le idee di fondo: primo, alla luce delle scienze sociali la forma di famiglia ideale per favorire un sano sviluppo del bambino è il modello tradizionale di matrimonio eterosessuale; secondo, l'identità sessuale si forma in un'età precoce sulla base di " fattori biologici, psicologici e sociali"; terzo, esistono numerosi esempi di persone che sono riuscite a cambiare il loro comportamento, identità, stimoli o fantasie sessuali.

A sostegno di queste tesi sono nati i movimenti "ex-gay", persone "riparate" e spesso convertite al cattolicesimo che hanno lo scopo dichiarato di dimostrare che dall'omosessualità è possibile "guarire". Il bello della faccenda è che sempre più gruppi di "ex gay" vengono sciolti per il fatto che molti associati hanno ri-trovato un partner dello stesso sesso proprio in quell'organizzazione.

***

La terapia riparativa di Cantelmi

Cantelmi cerca di adattare su di me, sul mio caso, le ragioni di quella terapia. Parla di traumi infantili che generano confusione in un mondo già pieno di contraddizioni e di liquidità nei rapporti interpersonali. Il tutto per spiegare che in un certo senso i comportamenti della persona omosessualità sono indotti da questa schizofrenia esterna. Non solo omosessuali però. Il professor Cantelmi è infatti convinto, e me lo spiega, che la nostra epoca è caratterizzata da una grossa compulsività sessuale: una dipendenza che colpisce migliaia di persone e tra questi tanti, tantissimi giovani. Mi parla di «relazioni malate con il sesso», di «perdita di controllo» e così via.

«E in tutto questo, l'omosessualità?», chiedo io.

«Beh, il mio studio è pieno. Abbiamo la fila. Ci sono centinaia di ragazzi che chiedono aiuto».

«Vede - dico cercando di stanarlo - io non so bene se sono omosessuale. Non capisco se sono vittima di una sorta di disagio psichico o se devo assecondare queste mie pulsioni».

«Non preoccuparti Davide - mi dice sereno e sorridente - dal tuo profilo mi sembra di poter parlare di una ansia generalizzata e di una leggera nevrosi che in qualche modo condiziona e devia le tue scelte sessuali. Ora faremo il test e avremo più elementi per poter scegliere la terapia migliore».

***

Il Test ed i discepoli del professore e la cura

La dottoressa Cristina Cacace dell'Istituto di terapia cognitivo interpersonale diretto da Cantelmi mi accoglie sorridente nel suo studio. Mi osserva, anzi mi scruta con insistenza. «Ora mi becca - penso io - scopre che sono un infiltrato e mi caccia». E invece no. Evidentemente la diagnosi del Professor Cantelmi deve avermi suggestionato. Un po' nevrotico, perseguitato, mi ci sento davvero. Fatto sta che lei mi invita con gentilezza nel suo studio targato Ikea, mi fa accomodare e mi interroga: nome, cognome, età, indirizzo, telefono e stato civile. Io rispondo senza esitare e attendo, anche qui, "la" domanda . Ma la dottoressa Cacace già sa e non c'è bisogno di alcuna premessa.

Saltiamo direttamente ai particolari più intimi: quante volte, e fino a che punto. «Fino a che punto in che senso?», chiedo io. Lei sorride. Mi chiedo se lei, giovane psicologa, crede davvero alle follie e alla violenza di questa benedetta "terapia riparativa" oppure se è li, in quel piccolo studio solo perchè non trova nulla di meglio. Ma i miei pensieri vengono interrotti dalla domanda della dottoressa:

«Davide, i tuoi rapporti omosessuali sono stati solo attivi o anche passivi»? Sento un forte disagio di fronte a quella domanda ricorrente, ossessiva. Mi viene in mente il lato pruriginoso e voyeuristico di chi la pone. Alla fine rispondo come ho già risposto a Don Giacomo e al professor Cantelmi: «Sì, attivo e passivo». Poi racconto anche a lei del mio rapporto conflittuale con mia madre, delle assenze di mio padre e aggiungo che ogni tanto, da piccolo,venivo scambiato per bambina. La giovane assistente di Cantelmi annuisce gravemente e mi fissa l'appuntamento per il test di personalità. «Dopo il test - mi dice prima di accompagnarmi alla porta - sapremo meglio come trattare la tua situazione».

Pochi giorni dopo sono di nuovo lì e scopro che il Test dura circa quattro ore ed è nient'altro che il cosiddetto "Test Minnesota" quello che utilizzano le forze armate di mezzo mondo per selezionare il proprio personale. Seicento domande circa che dovrebbero dare risposte su eventuali deviazioni del candidato: ipocondria, depressione, isteria, deviazione psicopatica, mascolinità o femminilità, paranoia, psicastenia, schizofrenia, ipomania e introversione sociale. Un pout-pourri che, tra le altre cose, dovrebbe mettere in luce le mie tendenze omosessuali. Comunque la dottoressa mi dà i fogli, un penna e mi piazza in corridoio. Inizio a scorrere le domande: «Hai avuto esperienze molto strane?»; oppure, «Ti piacerebbe essere un fioraio?». A quest'ultima rispondo di sì spinto dalla banalità della considerazione; Forse chi sceglie di fare il fioraio, secondo loro, ha una predisposizione ha diventare un po'checca.

D'un tratto vengo colpito e distratto dalla presenza silenziosa di una signora e di un giovane adolescente. Sono madre e figlio. Lui mi sembra particolarmente timido, a disagio. Non posso saperlo, ma potrebbe benissimo trattarsi di un ragazzino forzato dalla madre per arginare, almeno finché è in tempo, la «propria devianza omosessuale». Di nuovo penso a quanto sia angusta questa pratica e a quanta violenza abbia in sé. Penso alla pressione che può subire un ragazzino di 15-16 anni che sta scoprendo la propria sessualità. La preoccupazione, spesso in buona fede, dei genitori e la scelta di far qualcosa per fermare quella "scoperta" piuttosto che accoglierla e sostenerla. Poi la signora e il ragazzino si infilano in una delle tante stanze dello studio degli allievi di Cantelmi e io torno al mio test infinito: «Hai mai compiuto pratiche sessuali insolite?»; «Ti piaceva giocare con le bambole?»; «Qualcuno controlla la tua mente?»; «Hai spesso il desiderio di essere di sesso opposto al tuo?»; «L'uomo dovrebbe essere il capo famiglia?»...

Finite le domande, torno in stanza dalla dottoressa.

Lei ripone le mie scartoffie che già contengono il risultato del mio "grado di omosessualità" e tira fuori una decina di cartoncini colorati da figure bizzarre. Sono le macchie del test di Rorschach. Spruzzi indefiniti di colore, che agiscono in modo inconscio attivando reazioni proiettive. Insomma, di fronte a quelle macchie sono invitato a rintracciare e comunicare figure sensate. Io mi lancio sforzandomi di vedere peni, vagine, ani e così via. Individuo anche un paio di feti appesi per il cordone ombelicale. Dò il peggio di me, cercando di convincere la dottoressa Cacace che la mia sessualità è particolarmente deviata, talmente corrotta e omosessuale da meritare le sue cure. Ma lei, di fronte al mio sproloquio genitale non fa una piega: sfila uno dopo l'altro i cartoncini del test e prende diligentemente appunti.

Nel frattempo si accosta a me ed io non trattengo un'occhiata fugace alla scollatura. Lei, sorpresa, si ritrae, si copre e mi guarda con imbarazzo. Insomma, dopo tutto quel parlare della mia omosessualità probabilmente sono caduto nella banalità di voler riaffermare la mia "mascolinità" di fronte a una donna. Per la prima volta, in un certo senso, vivo sulla mia pelle la forza e la violenza del condizionamento sociale e culturale che vivono i gay. Poi, riprendo con le mie figure...

***

I risultati del test, quanto sono omosessuale?

«Non molto, la tua omosessualità è davvero sfumata», mi dice la dottoressa Cacace mostrandomi una ventina di pagine che contengono la mia "diagnosi". «Omosessualità sfumata», proprio così. A quel punto chiedo maggiori spiegazioni. «Allora, io direi che siamo di fronte ad una nevrosi che ha indotto una deviazione sessuale - continua lei - sarà il professor Cantelmi a spiegarti meglio.

Dopo qualche giorno sono di nuovo nella sala d'attesa del professore. La sensazione è la stessa: un porto di mare aperto a tutti i "casi umani". Cantelmi, cortese e accogliente come sempre, sfoglia i risultati del mio test e mi parla di "leggera nevrosi e depressione" che avrebbe indotto la mia deviazione sessuale, l'uscita dai binari di una sessualità sana e consapevole. «Tu non sei propriamente un omosessuale», mi dice. «La tua mi sembra più una preoccupazione determinata da alcuni episodi legati all'infanzia». Poi attacca con il conflitto con mia madre e l'assenza di mio padre, da me del tutto inventata, che mi avrebbe privato di una figura maschile forte, una figura di riferimento su cui avrei dovuto modellare la mia sessualità e definire il mio genere. Dunque non sono del tutto omosessuale.

Forse la terapia è già iniziata. Negare la mia omosessualità è il primo passo verso la "guarigione". Probabilmente è una modalità per iniziare a smontare la convinzione del "paziente". Sentirsi dire, «non sei propriamente omosessuale», forse, significa iniziare a destrutturare la personalità dell'individuo, le sue convinzioni e metterlo di fronte al fatto - un fatto certificato da uno psicologo - che la sua omosessualità non è mai esistita. Anzi, che l'omosessualità in sé non esiste se non nei termini di una deviazione dalla norma, dall'unica norma reale: l'eterosessualità.

«A questo punto - continua poi il professore - si tratta di andare a ripescare quelle fratture e superarle attraverso una terapia adeguata».

«Che tipo di terapia?» chiedo io. «Una terapia individuale. Ti seguirà un mio assistente, ma io - mi tranquillizza - sarò costantemente informato dei tuoi progressi». «Ma io sapevo di gruppi di mutuo-aiuto, pensavo che mi inserisse lì». «I gruppi ci sono - mi dice lui - ma sono gruppi con persone che hanno una forte devianza sessuale. Non credo che sia la terapia migliore per il tuo stato. Non so, vedremo».

Io non mollo la presa e cerco di scoprire cosa accade dentro quei gruppi. «Sono gruppi di persone guidate da psicoterapeuti che condividono le propria esperienza verso un percorso riparativo», aggiunge frettolosamente Cantelmi. Poi si alza, mi dà il numero di telefono dell'ennesimo psicologo, ovviamente un altro assistente, e mi regala un libro: "Oltre l'omosessualità" di Joseph Nicolosi.

Nicolosi, proprio lui, il guru dei guaritori, il creatore della terapia riparativa, quello che vanta ben 500 casi di «gay trattati», anzi, riparati. «Leggilo - mi dice - troverai situazioni simili alla tua. Persone come te che ce l'hanno fatta».

***

Il libro di Nicolosi

Oltre l'omosessualità" di Joseph Nicolosi è una raccolta di storie di vita. Otto storie di omosessuali corretti, riparati, e un'appendice finale sulle modalità della terapia. Tra loro Albert, un trentenne che «parla con tono leggermente effeminato e la nostalgia - sottolinea Nicolosi - di un bambino perduto». E in effetti il problema di Albert, racconta Nicolosi nel suo libro, è proprio il suo attaccamento al mondo perduto dell'infanzia. Di qui un'illustrazione delle caratteristiche ricorrenti nelle persone omosessuali: attrazione distaccata per il proprio corpo, prime esperienze sessuali con altri bambini, ipermasturbazione, - «gli omosessuali - spiega Nicolosi - si masturbano più spesso degli eterosessuali: è un tentativo di stabilire un contatto rituale con il pene» - e una figura materna opprimente. A quel punto l'obiettivo del dottor Nicolosi è quello di «sviluppare un senso più solido della mascolinità» di Albert. Come? Innanzi tutto affrancandosi dall'opprimente legame materno, coltivando amicizie maschili non sessuali e facendo lunghi giri in bicicletta. Lunghi giri in bicicletta, proprio così. Finalmente arrivano i primi progressi: Albert riesce a controllare la masturbazione, si distacca dalla madre, non salta addosso al suo amico e continua a girare in bici per il quartiere. «Le stanno succedendo proprio delle belle cose», confida il dottore ad Albert. Tre anni dopo Albert ha una voce sicura, ogni inflessione femminile è sparita, si è «staccato emotivamente dagli altri maschi e dalla mascolinità», e si è affrancato dal controllo materno: la colpa originaria, la causa della sua omosessualità; Albert si è anche fidanzato con una ragazza. Insomma è riparato. Ed è riparato perchè «ha afferrato - commenta Nicolosi - il concetto del falso sé»: la falsa identità gay che l'esterno ti impone. «No, non sono gay», è l'ultimo commento di Albert prima di iniziare la sua nuova vita da eterosessuale.

Altra vicenda interessante raccontata da Nicolosi è quella di Tom: «Un uomo straordinariamente bello, alto circa 1m e 80, occhi azzurri e ben vestito». (chissà che anche Nicolosi non tradisca una tendenza omosessuale: il guaritore dei gay che scopre di essere gay, un grande classico già visto mille volte). Tom è sposato, ma separato a causa di una relazione con un altro ragazzo: «Andy, un ventiquattrenne irresistibile». Nicolosi è chiaro con Tom: «Se lei vuole divorziare da sua moglie e iniziare la sua nuova vita con il suo amante gay io non la seguo». Il fatto è che Tom si sente vuoto senza la moglie e i figli e non sa come presentarsi in società, come tirare fuori la sua omosessualità. Un paio di buone ragioni per iniziare la terapia riparativa. Il fatto è che, almeno per Nicolosi, Tom è un omosessuale anomalo: «Non ha problemi di affermazione nei confronti degli altri uomini, in affari è deciso e risoluto ed è estroverso. Ma sotto sotto - svela Nicolosi - ha la fragilità emotiva tipica degli omosessuali». A farla breve, Tom ha una paura nera di perdere la moglie e i figli e ritrovarsi solo perché «le relazioni omosessuali sono senza futuro». A quel punto Nicolosi incontra la moglie di Tom che ha tutta l'intenzione di collaborare per riportare il marito sulla retta via. Un lavoro che riesce, ma i segni dell'omosessualità hanno lasciato la loro traccia indelebile: Tom è Hiv positivo e di lì a poco muore. Il messaggio, meglio, l'avvertimento di Nicolosi è fin troppo chiaro: attenzione, di omosessualità si può guarire ma anche morire.

***

Prove di guarigione

Quando torno nello studio del professor Cantelmi scopro che la mia guarigione è nelle mani di un suo giovanissimo assistente. Anche lui sfoglia i risultati del mio test, e inizia a parlare del percorso che abbiamo davanti. «Ripercorreremo il conflitto con tua madre, l'assenza di tuo padre, cercando di ricomporre le fratture che hanno generato la confusione».

«Confusione?»

«Si, certo, confusione di genere. Ma prima Davide - continua il giovane dottore - parlami della tue esperienze omosessuali». Per la quarta volta mi ritrovo a parlare del mio compagno di Liceo e racconto delle paure del mio matrimonio. Ma la Domanda arriva: «Davide, i tuoi rapporti sono stati completi?». «Vuol sapere se l'ho preso nel di dietro dottore? Sì, due volte», rispondo seccato. Lui sorride imbarazzato. Ma in effetti è proprio quello che voleva sapere. Poi si riprende e attacca. «Vorrei anche sapere le sensazioni che hai provato». Sull'orlo dell'esaurimento per quelle domande così ripetitive e di basso livello, attacco un pilotto infinito. Gli racconto, invento, ogni particolare. Gli parlo dell'eccitazione del rapporto omosessuale maschile, del senso di trasgressione e richiamo alla mente alcuni passaggi particolarmente suggestivi e "scabrosi" descritti da uno dei pazienti del libro di Nicolosi. Lui si beve tutto e prende diligentemente appunti. Finalmente gli ho offerto il "malato" che è in me e mi sembra visibilmente soddisfatto.

Io inizio a provare un senso di nausea. Nausea per Don Giacomo, per il professor Cantelmi e per i suoi giovani assistenti. Sono passati sei mesi dal mio primo incontro e a questo punto mi sembra di non riuscire a sopportare oltre. Mi rendo conto che in questo lungo periodo abbiamo solo parlato del mio didietro. Per la prima volta realizzo che nessuno di loro mi ha mai chiesto se mi era capitato di innamorarmi di qualche uomo. Nessuno ha mai voluto sapere le mie emozioni di fronte ai rapporti omosessuali. Possibile che non gli interessi altro che il numero di penetrazioni "subite"? Il giovane psicologo mi fissa un nuovo appuntamento. Io lo saluto e sparisco. Non metterò mai più piede in quello studio. Ormai ne so abbastanza.

lunedì 18 febbraio 2008

Una giornata in corsia a Napoli (dopo l'irruzione): 54 obiettori su 60



Il reportage della mia brava collega Laura Eduati,
ha finto di dover abortire nello stesso ospedale dove e' scattato il blitz della polizia per fermare il "feticidio"....


Fingo di dover abortire al Policlinico Federico II di Napoli.
Chiedo informazioni ad una infermiera che fuma una sigaretta sugli scalini, accanto alla scritta sul muro: "E' nata la nostra speranza, si chiama Sofia".
Mi dirige verso una caposala che mi guarda con comprensione: «Le liste sono bloccate da alcuni giorni». Bloccate? «Sì, troppe richieste. Si rivolga ad un altro ospedale». Poi mi scrive il numero dell'assistente sociale. Provo a cercarla su e giù per i cinque piani della palazzina di Ginecologia e Ostetricia, le scale sporche e qualche cartaccia per terra. Mi guardano storto: «L'assistente sociale non c'è, è malata o in ferie». Prendo l'ascensore, vicino al pulsante un' altra scritta: "Maria ti amo anche se abbiamo perso il nostro bambino".


Nel reparto dove lunedì sera hanno fatto irruzione sette poliziotti per sospetto feticidio, reato inesistente, i ginecologi non obiettori sono 6 su 60. E lavorano nel caos.
«In Campania non c'è un sistema di prenotazioni centralizzato» spiega il dottor Francesco Leone, responsabile del servizio di interruzione volontaria di gravidanza: «E dunque le donne prenotano sia qui che in altri ospedali per vedere dove trovano prima un posto libero. Su dieci prenotazioni se ne presentano tre, e questo intasa le liste di attesa».
La soluzione? «Pretendere che i nuovi assunti non siano obiettori. Forse l'ispezione regionale dopo il blitz anti-abortista ci servirà per migliorare le cose».
Entrare nel reparto di Ginecologia e Ostetricia del Secondo Policlinico, tra i più avanzati della Campania e sicuramente polo di eccellenza nel Sud, significa entrare a contatto con la realtà nuda e cruda delle questioni etiche riaperte dal fronte cattolico: donne in vestaglia col pancione in attesa di partorire (2000 parti nel 2007), donne in attesa di fare un aborto terapeutico (274) o un aborto entro i 90 giorni (1370), coppie che attendono il proprio turno per una visita nel piano dedicato alla fecondazione assistita (200 cicli), o che sono venute a ritirare il test sulla sterilità (500), donne mature alla presa con la menopausa (1500), coppie in ansia per un bimbo nato troppo presto e sottoposto a terapia intensiva neonatale.
Il direttore del reparto Carmine Nappi ondeggia tra l'orgoglio di una équipe di primo livello e la rabbia per l'assalto degli agenti: «Non so se sia un fatto eclatante, so che non è successo niente» esordisce sedendosi nel suo ampio studio, con la foto di Karol Wojtyla alle spalle.


L'inchiesta interna, una semplice relazione sui fatti, verrà depositata in serata nelle mani del direttore generale. L'inchiesta giudiziaria, invece, langue su di un binario morto. «Premerò per querelare chi ha chiamato la Procura per denunciarci, ha causato il disdoro della struttura». Obiettore di coscienza ed elettore di Forza Italia, sostenitore della rianimazione del feto a tutti i costi ma favorevole alla diagnosi pre-impianto attualmente vietata dalla legge 40, Nappi ragiona principalmente da medico: «A noi esperti serve un confronto vero, quello che il mio amico ginecologo Carlo Flamigni chiama "un'isola di stranieri felici" dove dialogare delle nostre cose senza l'interferenza della politica e le strumentalizzazioni. Perché questo clima da caccia alle streghe danneggia in primo luogo le donne. La 194 va bene così com'è, semplicemente vorrei che il legislatore imponesse un limite temporale oltre il quale non è possibile fare un aborto terapeutico. Un limite uguale per tutti».
Fin dal 1998 il Policlinico, che accoglie le richieste di aborto terapeutico di Napoli e provincia, ha stabilito il limite di 22+7. Tre giorni in più, cioè della pur laica e avanguardista clinica Mangiagalli di Milano che si ferma a 22+3.
«Nel 2001 scrivevo che la legge 194 va applicata e non cambiata, oggi invece penso che c'è bisogno di chiarezza sui limiti» continua Nappi. Anche lui d'accordo, con il dottor Leone, che il dibattito degli ultimi mesi sull'aborto è costruito in verità «sul nulla».
Perché già la 194 vieta l'aborto quando c'è possibilità di vita autonoma del feto, e dunque quando si pratica un'interruzione di gravidanza oltre il 90mo giorno il medico deve presupporre che il feto nasca morto. «Ma non c'è alcun strumento che mi faccia capire con certezza se un feto è vivo oppure no alla 22ma o 23ma settimana» dunque a volte può succedere che il feto sia vivo. E allora, secondo Nappi, «va rianimato».


Di parere diverso il dottor Leone: «Rianimare alla 22ma settimana spesso dà ulteriori problemi ai genitori, al feto stesso che sviluppa patologie gravissime e alla società». Della legge sull'aborto il ginecologo Leone pensa che non sia perfetta ma bisognerebbe dare la possibilità di abortire anche oltre la 23ma, data ultima adottata convenzionalmente dai ginecologi italiani, nel caso di enormi patologie fetali come l'anencefalia scoperte tardivamente.
Il dibattito è vivace. Oltre alle pubblicazioni mediche e i manuali di Ostetricia, Leone conserva sul tavolo il numero dell'Espresso con l'intervista a Emma Bonino e una serie di quotidiani sul blitz della polizia. «Ma non mi sento criminalizzato. Non credo» scherza «che mi troverò gli antiabortisti fuori dell'ospedale come succede in America». Questione medica, non questione etica.Nonostante l'altissimo numero di ginecologi obiettori, il dottor Leone assicura che «non c'è mai stato scontro ideologico tra le differenti posizioni né c'è mai stato un tentativo di proselitismo da parte dei militanti per il Movimento per la vita». C'è insomma, un rispetto reciproco che non spiega l'intervento brutale della polizia, con il sequestro della cartella clinica e del feto di 500 grammi, e l'interrogatorio spiccio di S.S., la trentanovenne di Arzano (Na) appena uscita dalla sala parto dopo un laborioso aborto terapeutico. In serata il pm di Napoli Giovandomenico Lepore, coordinatore dell'inchiesta, dichiara che la telefonata anonima al 113 denunciava un infanticidio che si stava consumando in un bagno del Policlinico. Lepore poi difende gli agenti che sarebbero intervenuti con «assoluta professionalità» e nel pieno rispetto della privacy.


Ma la chiarificazione non attenua il diluvio di critiche nei confronti della Procura napoletana e il ministro della Giustizia Luigi Scotti chiede al procuratore generale di Napoli Vincenzo Galgano una attenta verifica sull'intervento dei magistrati nel reparto di Ostetricia di Nappi.
Le sei donne appartenenti al Consiglio superiore della magistratura, orripilate, chiedono insieme ai colleghi uomini un intervento dell'organo di autogoverno dei magistrati, mentre il presidente degli ordini dei medici Amedeo Bianco esprime forte preoccupazione circa l'azione dei poliziotti «sia nel merito che nel metodo».
Forte condanna anche dalla Cgil; l'associazione nazionale giuristi democratici di cui fa parte Barbara Spinelli dirama un comunicato in solidarietà con le donne coinvolte definendo «censurabile» l'intervento delle forze dell'ordine. Naturalmente interviene la politica: il Pd proclama con Anna Finocchiaro che la 194 e l'autodeterminazione delle donne vanno difese, Giuliano Ferrara ricorda che lunedì al Policlinico «è morto un bambino» cioè il feto della signora S.S. ma nessuno se lo ricorda. Maria Luisa Boccia (Prc): «Quanto al blitz,dovranno rendere conto la polizia che l'ha effettuato e il magistrato che l'ha autorizzato».
Il movimento femminista e lesbico si concentrerà oggi alle 17 davanti al ministero della Salute per protestare contro «una vera e propria dichiarazione di guerra» alle donne e al loro corpo. Nelle stesse ore la manifestazione convocata dalle donne dell'Udi a Napoli in piazza Vanvitelli alla quale parteciperà la Sinistra l'Arcobaleno, a Milano davanti alla clinica Mangiagalli e a Bologna di fronte all'ospedale Sant'Orsola. Venerdì alle 10 un sit-in del comitato in difesa della 194 davanti al Policlinico napoletano. Telefono Rosa fornirà assistenza legale gratuita a S.S. Il tutto con la benedizione di Barbara Pollastrini.
«Ho ricevuto telefonate di stima e solidarietà da molti politici» dice il primario Nappi. «Capisce qual è il problema? Che poi i politici discutono di queste questioni senza interpellarci, i tecnici devono intervenire di più. Io voglio discutere di problematiche mediche».


E il problema degli obiettori di coscienza, non sono troppi rispetto ai non obiettori? «Bisognerebbe concentrarli in una unica struttura così una donna saprebbe esattamente dove andare se vuole effettuare un aborto». «Ma il vero problema è che manca una politica della contraccezione, siamo ultimi in Europa, i consultori funzionano male, mancano di personale, le donne spesso non sanno che esistono: loro dovrebbero farsi carico per esempio della prescrizione della pillola del giorno dopo restando aperti il sabato e la domenica».
Dettagli clinici, proposte: di questo parlano i medici e non di ideologia. La realtà sta sempre altrove: ed è quella delle donne campane che fanno fatica a trovare un medico disposto a farle abortire, oppure lo trovano ma le infermiere obiettrici consegnano le candelette di prostaglandina (l'ormone che induce il parto, ndr) rifiutandosi di iniettarle, costringendo le donne a fare da sole. E allora alcune ricorrono alle cliniche private, a pagamento e fuorilegge. Come accadeva a Ischia, dove tutti i medici erano obiettori nell'ospedale pubblico e invitavano le pazienti ad abortire nei loro uffici privati. Poi c'è chi ricorre allo stratagemma: il medico compiacente che inietta la prostaglandina dietro un cospicuo compenso, poi spedisce la poveretta ad abortire nelle strutture pubbliche dove i medici catalogheranno il tutto come aborto spontaneo.

Liberazione 14/02/2008

domenica 17 febbraio 2008

Un uomo che si e' fatto da se'...Matteo Roberto Colaninno capolista a Milano per il Pd


ma chi e' Matteo Colaninno?
Facile e' il figlio di Roberto...

Roberto Colaninno (Mantova, agosto 1943) è un imprenditore italiano.
Attualmente è presidente di IMMSI e di Piaggio.
Origini pugliesi, di Acquaviva delle fonti (BA).
La sua carriera di manager inizia in FIAAM azienda italiana di componenti per auto con sede a Mantova, di cui diviene amministratore delegato. Nel 1981 fonda la Sogefi.
Nel 1996 viene nominato amministratore delegato di Olivetti. In quegli anni trasforma l'azienda da una società di computer in una holding di telecomunicazioni creando Infostrada e Omnitel.
Nel 1999 lancia una offerta pubblica di acquisto (opa) totalitaria su Telecom Italia, fino ad oggi la più grande operazione di acquisizione mai operata in Italia. Come soci dell'operazione ha un gruppo di imprenditori bresciani, sopranominato la razza padana dell'imprenditoria, guidati da Emilio Gnutti e riuniti nella società Hopa Spa. L'operazione riesce, però crea un grosso debito in Telecom stessa che non riesce comunque a risanare. Nel 2001 vende la Telecom a Pirelli e Benetton creando una notevole plusvalenza (1,5 miliardi di euro) nelle casse di Bell, la società veicolo lussemburghese con la quale Colaninno e Gnutti ottennero il controllo di Telecom. Per questa plusvalenza la società è stata indagata per evasione fiscale e multata dall'Agenzia delle entrate per 1,937 miliardi di euro. L'accertamento con adesione a cui hanno aderito i soci di Bell ha permesso la riduzione delle sanzioniad un quarto del minimo, così la società ha dovuto versare al Fisco solamente 156 milioni.
Nel 2002 acquista IMMSI società operante nel settore immobiliare, l'anno dopo attraverso questa società acquista Piaggio.

Wlater e Silvio, 2 programmi al prezzo di 1


Indovinate chi l'ha detto....Walter o Silvio?
Le risposte in fondo.

1. Abbigliamento: Cravatta a pallini bianchi con sfondo blu. Chi la indossava nello studio di Vespa?

2. Tav: Si farà, va completata e utilizzata appieno.

3. No-Nimby: Basta con l'ambientalismo del no che cavalca ogni movimento di protesta del tipo Nimby cioè non nel mio giardino.

4. Pluralismo : Non possiamo ancora correre ancora il rischio di veder bloccata l'azione del governo da veti e controveti.

5. Diritti: L'Aborto è un tema troppo delicato per finire nell'agone politico.

6. Stipendi: Bisogna intervenire sugli stipendi dei lavoratori dipendenti per detassare gli straordinari, le tredicesime, le quattordicesime e togliere di mezzo le tasse inutili.

7. Immigrazione: Non si possono aprire i boccaporti. Roma era la città più sicura del mondo prima dell'ingresso della Romania nell'Ue.

8. Slogan: Yes we can.

9. Tasse: Ridurremo la pressione fiscale.

10. Afghanistan: I nostri soldati sono lì a difendere la pace. Noi dobbiamo continuare ad essere impegnati in missioni di pace.

11. Afghanistan bis: Bisogna riconsegnare l'Afghanistan alla democrazia.

12. Imprenditori affezionati: Gli imprenditori sono lavoratori: dei lavoratori che sono affezionati alle loro aziende.

13. Ici: Aboliremo l'Ici sulla prima casa.

14. Basta col '68: Chi allora proponeva il "6 politico" produceva un falso egualitarismo che perpetuava le divisioni sociali e di classe esistenti.

15. Sicurezza: Maggiore controllo del territorio grazie alle nuove tecnologie, a cominciare dalle reti senza fili a larga banda, e la videosorveglianza da far diventare un terminale della rete

16. Sarkozismi: Nel mio governo mi piacerebbe avere Blair.

17. Sarkozismi bis: Nel mio governo vorrei avere Gianni Letta e Letizia Moratti.

18. Meno, meno, meno: Meno veti, meno burocrazia, meno conservatorismi.

19. Più, più più: L'Italia deve lasciarsi alle spalle il passato e scegliere il nuovo, smettere di accontentarsi e volere di più, ricercare la felicità»

20. Comunismo: Il comunismo è l'impresa più disumana della storia con oltre cento milioni di morti

21. Comunismo bis: Non sono mai stato comunista

22. Montezemolo: Guardo con molto interesse al suo programma.

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Soluzione
1. Indossavano entrambi la stessa cravatta; 2. Walter; 3. Entrambi; 4. Entrambi; 5. Entrambi; 6. Silvio; 7. Walter; 8. Walter e Obama; 9. Entrambi; 10. Walter; 11. Silvio; 12. Walter; 13. Silvio; 14. Walter e Nicolas; 15. Walter; 16. Silvio; 17. Walter; 18. Walter; 19. Walter. 20. Silvio; 21. Walter; 22. Montez. parlava del programma di Walter ma anche di Silvio

Ester V.

Froci per il calcio....



Guti, centrocampista del Real Madrid, e' stato fotografato nel bel mezzo di un bacio gay...
Finalmente, anche nel calcio inizia a incrinarsi l'immagine machista. Un'immagine semplicemente falsa che non poteva resistere a lungo...tanti i casi di giocatori gay, oggi come nel passato, mai usciti alla scoperto...

sabato 5 gennaio 2008

Qualcuno rassicuri Kaka': piacere a gay non vuol dire essere gay



Sarà per quel suo destro pennellato, quel dribbling devastante; o forse per via di quei suoi lineamenti femminei, muliebri: occhi languidi e labbra carnose incastonate in un mento volitivo. Sarà per questo che Ricardo Izecson dos Santos Leite, meglio noto come Kaká, piace tanto ai gay. O almeno ne è convinta la redazione di G-magazine, il mensile gay brasiliano che ha annunciato la pubblicazione di un gustoso reportage fotografico. Protagonista un sosia del centravanti rossonero, un giovane modello sudamericano che ha posato come Dio l'ha fatto: nudo e venusto come un bronzo di Riace.

Ma lui, il campione del mondo e d'Europa, il pallone d'oro e Fifa world player in carica, di queste cose da checche non ne vuol proprio sentir parlare. E' un ragazzotto per bene, lui, ed è un devoto cristiano serio e pudico. Per questo ha mobilitato il suo stuolo di avvocati che hanno già pronte le scartoffie per la querela .

Eppoi, è noto, il campione rossonero è un fedele seguace della Chiesa Pentecostale Renacer em Cristo, una sorta di setta religiosa che ultimamente è finita nei guai per uno strano giro di soldi. Alcuni dei quali proprio di Kakà, visto che il nostro versa loro il 5% delle proprie entrate – quella dozzina di milioni di euro a stagione che tanto avvicinano alla gioia divina.

E dire che negli stessi giorni in cui Kakà minacciava querela Ambra Angiolini, l'ex lolita show-girl di "Non è la Rai" - quella che girava con l'auricolare nell'orecchio ripetendo a pappagallo i cinici suggerimenti di Gianni Boncompagni - ecco, quell'Ambra lì mostrava tutta la propria gioia nell'apprendere la notizia di essere proprio lei la più amata dalle lesbiche italiane. Chi sia l'autore di queste strane classifiche non è dato sapere, e forse la gran parte delle lesbiche non sa neanche chi sia Ambra. Ma tra una punizione, un dribbling e un pallonetto, almeno in questa storia la vera campionessa è risultata lei. Chissà che anche Kakà non abbia bisogno di un bell'auricolare nelle orecchie, di una voce saggia che ogni tanto gli ricordi che lui è un campione e un modello per migliaia di persone, etero o omo che siano. Di qualcuno che lo rassicuri (il giovane ne ha tanto bisogno) che piacere ai gay non significa essere gay. E un primo suggerimento arriva proprio da un suo collega, David Beckam: "Io un'icona gay? Sono molto onorato". Uno a zero, palla al centro.
D.V.